La Riforma costituzionale: quale democrazia

“La Riforma costituzionale: quale democrazia”

Seminario estivo di Agire Politicamente 2016

Sintesi dei lavori

Pier Giorgio Maiardi

Laggio di Vigo di Cadore – 27-30 agosto 2016


Un Seminario di “cattolici democratici”

L’intento del Seminario era quello di sviluppare un’attenta e serena riflessione critica sul merito della riforma costituzionale, senza porsi l’obiettivo di impegnare l’associazione su una specifica posizione, ma piuttosto di fornire gli elementi utili ad un percorso ragionato per un voto responsabile al Referendum di autunno.

E questa impostazione è stata ribadita da Lino Prenna sia in apertura che nella conclusione del Seminario ritrovandone le ragioni nell’ispirazione e nello stile del cattolicesimo democratico, preoccupato di salvaguardare la qualità della democrazia con la capacità, richiamata da Pierluigi Castagnetti, di interpretare la situazione politica contingente e di dare una gerarchia ai temi in gioco.


Richiamando lo scopo originario del cattolicesimo democratico, di conciliare il cattolicesimo con la democrazia, Prenna ha evidenziato la divaricazione oggi esistente fra società civile e società politica e la necessità di una conciliazione per un unico “bene comune”: la democrazia ha il compito di saldare questa divaricazione operando con le due braccia della libertà e della uguaglianza che hanno guidato la carta costituzionale. Ora la società civile si è pluralizzata e si è fatta complessa, è in atto un processo di orizzontalismo che si incrocia con un processo di verticalizzazione, la società civile va in senso inverso alla società politica: si tratta di una complessità che deve poter essere governata dalla democrazia partecipata, in una repubblica, dice Scoppola, che si deve evolvere da una repubblica dei partiti ad una repubblica dei cittadini. Ma la riforma costituzionale oggi proposta opera in questa prospettiva? La crisi politica ha messo in discussione la cultura del progetto e la cultura della mediazione: il cattolicesimo democratico, che non è mai stato un’ideologia, è un progetto che va al di là della contingenza ed ha la cultura della mediazione che lega l’assoluto al relativo ed ha l’intelligenza della realtà del quotidiano.

In questo spirito è necessario togliere al referendum il carattere apocalittico entrando nel merito della riforma da valutare anche sotto l’aspetto politico. E’ in crisi il pensiero, qualcuno ha osservato nella discussione, in una società contraddittoria, incapace di far convivere le contraddizioni, le persone sono capaci di farsi rappresentare? La rappresentanza è in crisi in tutte le strutture intermedie. Da qui l’esigenza di un servizio alla formazione che è premessa alla trasformazione. A questo proposito, dirà Roberto Grigoletto, sarebbe opportuna una “scuola di formazione” permanente, che non sia un’operazione di nostalgia, anche se noi appariamo come “nani sulle spalle di giganti”.

E’ qui che si è inserita la meditazione di don Battista Pansa: la logica in cui ci muoviamo, ha affermato, è l’opposto dell’esigenza evangelica. Proprio perché siamo cristiani, dice il card. Martini, siamo attenti a ciò che di buono vi è in tutte le fedi e le religioni, questo è il Vangelo della pace: la battaglia spirituale non è contro gli altri ma contro se stessi e l’unico modo di pace è quello di rapportarsi con gli altri senza preconcetti e senza prevenzioni. Oggi, dice don Pansa, la società e la politica soffrono delle stesse tre tentazioni a cui fu sottoposto Cristo, quelle dell’avere, del potere e dell’apparire.

La riforma della Costituzione: contenuti e valutazioni

Pierluigi Castagnetti ha ricordato le origini della carta costituzionale, il clima sociale e politico e le intenzioni che l’hanno originata, gli uomini, i pensieri e le idee che l’hanno generata: è la prima parte che ne fa la Costituzione “più bella del mondo” ed è qui che è predominante l’ispirazione dei cattolici che avevano chiaro il senso dello Stato. La provvisorietà degli strumenti e delle istituzioni disegnati nella seconda parte, dirà successivamente Paolo Giaretta, era stata già affermata esplicitamente anche da Aldo Moro.

A proposito del referendum, Castagnetti, pur esprimendo riserve sul modo di governo di Matteo Renzi, che, quanto ai contenuti, ha peraltro aspetti senz’altro positivi, ammonisce a rifuggire dalla tentazione di farne un giudizio sul Governo. E invita a riflettere su alcuni aspetti di fondo che caratterizzano la situazione attuale. La nostra, oggi, appare, infatti, una “democrazia senza”: senza lavoro, senza partecipazione, senza sovranità popolare…. mentre l’Europa, lungi da come l’aveva pensata De Gasperi, appare ferma, con una funzione frenante, incapace di procedere; i cattolici democratici devono saper discernere e saper “maneggiare” i meccanismi della democrazia. Nel valutare il voto al referendum assumono, quindi, grande importanza gli effetti che questo può produrre sulla situazione politica nazionale.

Alessandro De Nardi ha aiutato a leggere la riforma per entrarne nel merito ammonendo ad abbandonare eventuali pregiudizi: la Costituzione non è i ”10 comandamenti”, è scritta bene, è di alto livello ma è modificabile dopo il collaudo dell’esperienza che ne abbiamo fatto in questi 70 anni e ha necessità di una manutenzione ordinaria, nella 2° parte, per rispondere alle esigenze del tempo che è notevolmente mutato rispetto all’epoca della Costituente. Questa è una riforma di sistema ed è senz’altro la più ingente mai attuata. A proposito del Referendum confermativo, un eventuale spacchettamento degli argomenti trattati non è possibile perché nono sono possibili pareri differenziati fra le diverse parti. E’ senz’altro condivisibile la critica sul metodo seguito per l’approvazione parlamentare della riforma ma questo non può essere ritenuto un fattore determinante. Gli articoli principali modificati sono una decina e non certamente i 47 che taluni organi di stampa hanno evidenziato: nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di aggiustamenti obbligati a motivo delle riforme apportate al sistema. Una cosa è criticare la forma lessicale e gli “strafalcioni”, altro è esprimere critiche sulla sostanza della riforma. Non ci può scandalizzare neppure che sia stato il Governo ad assumere l’iniziativa della riforma: faceva parte del suo programma e diverse modifiche alla proposta governativa sono state apportate in sede parlamentare, modifiche, peraltro, che in diversi casi hanno peggiorato il testo iniziale.

La principale novità riguarda l’eliminazione del bicameralismo perfetto: non è sufficiente motivarlo con i tempi lunghi richiesti dall’iter di approvazione delle leggi perché si è dimostrato che il fattore tempo dipende dalla volontà politica. E neppure tiene l’argomento della riduzione dei costi. La ragione prima, invece, è rappresentata dalla volontà di portare la periferia al centro, di portare a Roma la voce dei territori: cambiano, così, la composizione e le competenze del Senato che già nell’Assemblea Costituente erano state oggetto di discussione. Così come era stata in discussione l’elezione indiretta dei suoi membri per opera dei Consigli regionali. Quanto alle competenze una serie di leggi continueranno ad essere oggetto di esame da parte di entrambe le Camere, con i medesimi procedimenti di oggi, e vi saranno invece leggi monocamerali, approvate dalla sola Camera dei Deputati con la possibilità, tuttavia, per il Senato di esprimere pareri: l’art. 70, portato ad esempio dai critici per la lunghezza della sua stesura, rispetto alla stringatezza precedente, deve necessariamente specificare, per la certezza del diritto, le competenze delle due Camere che si differenziano mentre prima si identificavano. Positiva appare la definizione dei termini e della data certa in cui devono essere approvati i decreti emanati dal Governo. Viene reso più facile il ricorso al referendum: se lo richiedono 800.000 cittadini è sufficiente il parere favorevole del 50% degli elettori dell’ultima consultazione elettorale. E vengono introdotte due nuove possibilità di referendum: quello propositivo e quello di indirizzo. Le maggioranze richieste per l’elezione del Presidente della Repubblica non potranno automaticamente consentire, contrariamente a quanto affermato da alcune voci critiche, che l’elezione possa avvenire per opera di una minoranza parlamentare a motivo della possibilità, al settimo scrutinio, di eleggere il Presidente con il voto favorevole dei soli 3/5 dei presenti: in base all’art. 64, infatti, per la validità delle deliberazioni assunte è sempre richiesta la presenza della maggioranza dei componenti le Camere. Un aspetto positivo può essere rappresentato dalla possibilità che, su richiesta di almeno 158 deputati, le leggi approvate dal Parlamento non possano entrare in vigore se non dopo l’esame della Corte Costituzionale. Riguardo al Titolo V De Nardi afferma che con la Riforma si provoca una riduzione dell’autonomia regionale ed evidenzia la definizione delle materie di competenza delle Regioni in modo da eliminare le “materie concorrenti” che hanno prodotto un numero esagerato di ricorsi alla Corte Costituzionale. Paolo Giaretta giudica questa modifica positivamente perché ora è tutto più chiaro: è vero che le competenze delle Regioni si sono ridotte, con un conseguente accentramento, ma le Regioni possono sempre richiedere maggiori poteri su alcune materie. E poi viene riaffermato il principio dell’unità nazionale. E’ passato il tempo in cui si è pensato che il “federalismo” fosse la panacea con una visione eccessiva delle Regioni dettata dalla necessità di conquistare il favore della Lega. Le modifiche proposte nascono da un’esperienza, non si sono, infatti, prodotti i risultati attesi. Anche l’abolizione delle Provincie può essere vista con favore in quanto questi enti hanno sempre avuto una funzione prevalentemente amministrativa, piuttosto che politica. Le città metropolitane, così come si sono realizzate, non corrispondono all’omogeneità dei territori e non hanno l’autorevolezza che verrebbe dall’elezione popolare dei governi, per cui si può nutrire qualche dubbio sulla loro possibilità di funzionamento. Quanto alla rappresentanza effettiva delle Regioni nel nuovo Senato, De Nardi ritiene che sarebbe positiva la presenza dei Presidenti delle Regioni che sono stati eletti direttamente dai cittadini ma, osserva, essi non sono “consiglieri” e quindi, per la loro eventuale presenza nel Senato, mancherebbe il presupposto per l’elezione, secondo un’interpretazione letterale della riforma. Novantacinque membri del Senato, su 100 complessivi (5 “possono essere nominati dal Presidente della Repubblica”) dovranno essere eletti, con metodo proporzionale, dai Consigli regionali, compresi i sindaci dei Comuni del territorio, tenendo conto delle scelte espresse dagli elettori nell’elezione di detti Consigli: il Consiglio regionale avrebbe, quindi, solamente un potere di ratifica? Quale criterio sarà seguito per individuare i consiglieri da eleggere al Senato? Potrebbe essere il numero delle preferenze ottenute nell’elezione dei Consigli regionali?

Le modalità di elezione dei membri del Senato può far pensare ad una probabile prevalenza, nella composizione di detto Organismo, delle parti politiche piuttosto che degli enti territoriali.

La riforma presenta, quindi, nel merito, luci ed ombre: ogni elettore, come dice Candido De Martin (vedi dossier Referendum nel sito di Agire Politicamente), dovrà orientarsi sulla base della prevalenza delle une o delle altre. Per orientare l’elettore, lo stesso De Martin suggerisce che fin da ora vengano rese note le proposte di formulazione delle leggi attuative. Certamente, dice De Nardi, la nostra crisi politica non può essere risolta con la modifica della Costituzione. E quindi nella decisione sul voto nel Referendum appare indispensabile anche una valutazione sulla situazione politica.

A proposito del nuovo Senato, Edoardo D’Alfonso fa una panoramica sugli organismi analoghi presenti negli altri Paesi europei: non vi è un modello uniforme, solamente in 13 su 28 stati è prevista una seconda Camera e solamente in 3 stati è prevista l’elezione diretta dei membri di detta Camera. Ovunque ci sia un decentramento amministrativo esiste una “Camera alta” che rappresenta i territori decentrati. Importante appare la competenza del nuovo Senato riguardo al rapporto con l’Unione Europea per l’impatto delle politiche europee sui territori: la sua funzione può riguardare non solamente l’applicazione delle norme ma anche la fase della loro formulazione (art. 55).

Le ragioni del “no” e le ragioni del “sì” al Referendum

Le ragioni del “no” nel voto referendario sono state esposte dall’intervento di Domenico Gallo. La sovranità popolare, su cui si fonda la nostra Repubblica, a partire dalla scelta fra monarchia e repubblica, dice Domenico Gallo, oggi è di fatto venuta meno perché il potere è detenuto dal mercato: si tratta di una situazione internazionale. Oggi è doveroso non adeguarci a questa situazione e difendere, invece, la democrazia: le costituzioni hanno questo compito e devono essere salvaguardate. La tendenza, invece, è quella di indebolire i poteri dei Parlamenti e rafforzare quelli dei Governi: in questa direzione vanno anche le direttive europee. Oggi si ritiene che il Senato attuale vada eliminato perché intralcia e ritarda l’attività legislativa e si considera auspicabile un Parlamento con una maggioranza certa, conforme al Governo. Quello che si vuole attuare, con la riforma costituzionale proposta, è il passaggio da una repubblica ad un’altra repubblica: si tratta di un referendum analogo a quello del 1946. Si ritiene che l’indebolimento del Parlamento ed il rafforzamento del Governo renda la politica più condizionabile dal potere del mercato.   Ne è prova il favore espresso per la riforma da autorevoli esponenti dell’economia e dell’imprenditoria, come Marchionne. Si dice che il Senato, nella sua attuale configurazione, deve essere abolito perché intralcia la puntuale approvazione delle leggi ma l’esperienza dimostra che l’80% delle leggi è di iniziativa del Governo e l’approvazione avviene in un tempo medio di 4 mesi: i tempi lunghi sono dovuti alla volontà politica. La funzione positiva di contrappeso del bicameralismo è dimostrata dal fatto che più di una volta il Senato ha evitato l’emanazione di leggi errate: il doppio esame produce decisioni più meditate e consente un’interlocuzione con i cittadini. Dai fautori del “sì” il bicameralismo viene giustificato con la necessità di un compromesso fra parti politiche, fortemente contrapposte al tempo dell’Assemblea costituente, e con il pericolo, allora molto sentito, di un ritorno al totalitarismo: ma il pericolo totalitario è un male da cui occorre tuttora e sempre difendersi e la divisione dei poteri è stata voluta e sancita dalla Costituzione che è guardiana delle regole. Oggi, inoltre, esiste l’emergenza della nuova legge elettorale che manipola fortemente la volontà degli elettori con premi di maggioranza spropositati che danno al Governo un potere esagerato: esiste un nesso inscindibile fra la riforma costituzionale e la legge elettorale che instaura una democrazia dell’investitura, inversa a quella della rappresentanza. Il Senato ora proposto riporta, di fatto, al centro le decisioni ed i poteri che erano stati decentrati: vengono tolte alla competenza delle Regioni materie importanti e, su queste, le Regioni non possono più interferire sulle decisioni del Governo centrale che può, inoltre, intervenire ogni volta che ritenga compromesso l’interesse nazionale. Gallo condivide il parere che, con questa riforma, la Repubblica diventi un principato, si crei l’”uomo forte” al comando. Rispondendo alle obiezioni poste nella discussione, Gallo ribadisce che le Costituzioni sono scritte per difendersi dai “demoni” e che occorrono forti istituzioni di garanzia, ogni potere è limitato da altri poteri. Questa riforma non è quella che salva la democrazia: a un federalismo sgangherato, citando De Siervo, contrappone un centralismo sgangherato. Quanto alle modalità di approvazione della riforma Gallo osserva che la Costituzione deve unire e non può essere un elemento di divisione e, in aggiunta, il Parlamento che ha approvato questa riforma è stato dichiarato illegittimo per essere stato eletto con le modalità previste da una legge dichiarata incostituzionale e l’eventuale approvazione referendaria non può sanare tale illegittimità. Non c’è dubbio che la situazione abbia necessità di riforme ma non è questa forma che risponde a tale esigenza. Noi stiamo subendo l’Europa.

A Gallo rispondono, con le ragioni del “sì”, Paolo Giaretta e Giancarla Codrignani, con la lettera inviata a motivo di un infortunio che all’ultimo momento le ha impedito la presenza diretta.

Giaretta dice che la riforma non rappresenta un “colpo di mano” ma è frutto di un lungo lavoro parlamentare e che è assolutamente eccessivo affermare che il Parlamento diventa succube del Governo. Nella riforma vi sono molti lati positivi come, oltre a quelli già evidenziati, la limitazione del ricorso al voto di fiducia per l’approvazione delle leggi, un voto che non consente l’indispensabile dibattito parlamentare: per questo è meglio una regola che fissi un limite di tempo per l’esame del Parlamento. E’ auspicabile una valutazione serena della riforma proposta, senza estremismi.

Giancarla Codrignani evidenzia, innanzitutto, il radicale cambiamento del mondo: stiamo vivendo un passaggio d’epoca che fa paura e che pone problemi gravi come quelli del lavoro e dell’immigrazione e la gente reagisce con la paura, la frammentazione, la chiusura, l’antipolitica. Si parla del voto come garanzia per la democrazia ma, in Turchia, Erdogan è stato eletto a larga maggioranza come Mussolini ed Hitler. In Italia, Renzi, “di cui m’importa poco”, ha deciso giustamente di chiudere la questione annosa delle modifiche costituzionali. La riforma proposta ha il carattere di una manutenzione, e non di una manomissione, che lascia immutata la prima parte con i principi che devono essere attuati: in Costituzione stanno partiti, sindacati e cooperative come organi di partecipazione di cui non si è mai resa obbligatoria la trasparenza. Così come è urgente regolamentare le lobbies. Non possiamo parlare di “uomo solo al comando” perché il Presidente del Consiglio resta colui (o colei) che, in quanto capo dell’Esecutivo, dirige la politica e ne è responsabile: l’esperienza fatta con la legge che regola l’elezione dei Sindaci dice che non ci sono state conseguenze antidemocratiche. Il Parlamento monocamerale resta composto di ben 630 rappresentanti che richiamano l’elettore all’esercizio delle sue responsabilità. La democrazia decade quando i meccanismi sono arrugginiti e lenti come dimostrano i 63 governi succedutisi in 70 anni, la legge elettorale è una legge e può essere modificata, la sovranità resta affidata al popolo.

La legge elettorale

A proposito della nuova legge elettorale, richiamata da Gallo, De Nardi aveva citato la sentenza della Corte Costituzionale che aveva dichiarato parzialmente incostituzionale il “porcellum” pur sancendo la legittimità del Parlamento che, con quello, era stato eletto. L’incostituzionalità era stata individuata nell’attribuzione del premio di maggioranza ad una lista senza alcun riferimento ai voti ottenuti e nelle liste bloccate senza alcuna possibilità, per l’elettore, di influire nella scelta degli eletti. La legge ora votata dal Parlamento si basa su un sistema proporzionale con premio di maggioranza al partito vincente con almeno il 40% dei voti e con un secondo turno di ballottaggio nel caso in cui nessuno raggiunga tale limite: al ballottaggio vanno i due partiti che hanno ottenuto il maggior numero di voti, qualunque sia la loro quantità e vince chi ottiene più voti, senza alcuna soglia minima, occupando nel Parlamento il 54/55% dei seggi; i collegi sono 100 e in ognuno vengono presentate liste predisposte dai Partiti con l’elezione bloccata per il capolista ed i voti di preferenza per gli altri candidati; una soglia di sbarramento del 3% e la possibilità di candidature multiple che consentono ai capilista di presentarsi in più collegi, fino ad un massimo di 10 con conseguente dovere di opzione senza tener conto dei voti ottenuti dal secondo candidato in lista. Non v’è dubbio che l’Italicum, nome con cui viene identificata la nuova legge elettorale, presenta caratteri di incostituzionalità: la Corte dovrebbe pronunciarsi entro il prossimo mese di ottobre ma potrebbe non pronunciarsi perché la legge non ha ancora operato. Può esserci un collegamento con la riforma costituzionale ma si tratta di due provvedimenti formalmente distinti e modificabili separatamente e non appare quindi corretto valutarli congiuntamente come fossero un “combinato disposto”.

Le luci e le ombre della riforma

Vincenzo Satta ha presentato il documento con cui l’associazione “Città dell’Uomo” ha inteso pronunciarsi sulla riforma e sul Referendum (vedi dossier referendum nel sito di Agire Politicamente): il documento è frutto di un intenso dibattito che ha evidenziato posizioni differenziate all’interno dell’Associazione. Lo stile è stato quello della riflessione dialogica con la fermezza sui contenuti di fondo, nello stile di Giuseppe Lazzati, fondatore dell’associazione. No a prese di posizione ma piuttosto offerta di elementi di riflessione e di discernimento. La forma di Governo appare, nel nostro Paese, già modificata durante la presidenza di Napoletano che ha scelto in più occasioni il primo ministro dettando la linea di governo: una forma di semipresidenzialismo a motivo dell’incapacità dei Partiti di esprimere una linea politica autonoma. Le politiche che gli ultimi governi hanno sviluppato derivano, infatti, da indicazioni che vengono dall’esterno, come quella dell’art. 81 della Costituzione sull’obbligo del pareggio di bilancio: questo avrà pesanti conseguenze soprattutto per le politiche sociali. Nella riforma il problema non è l’eliminazione del bicameralismo perfetto, che anche Dossetti avrebbe voluto modificare, ma la forma con cui si è sostituito il Senato. Le Regioni, realizzate tardi rispetto all’entrata in vigore della Costituzione, sono, di fatto, enti di amministrazione dello Stato e attuano le direttive europee: c’è da chiedersi cosa vogliamo fare delle Regioni. Il federalismo è un processo di aggregazione politica e, in questo senso, trova significato una sede di rappresentanza nello Stato: se il nuovo Senato vuole essere questo ci si chiede il perché della presenza dei Comuni. La riforma proposta non risponde, peraltro, a questo obiettivo: se così fosse sarebbe più logica e coerente l’elezione indiretta da parte dei Consigli regionali, come prevedeva la proposta originaria del Governo, prima della discussione in Parlamento. L’indicazione delle materie di competenza delle Regioni, dopo i numerosi conflitti di competenza, tiene conto della giurisprudenza della Corte Costituzionale. Buona appare la forte limitazione della decretazione da parte del Governo, buona è anche l’eliminazione del CNEL. Rispetto alla situazione economica e sociale, l’indirizzo di governo non può essere garantito dalla struttura delle istituzioni: sono i Partiti che devono elaborare le proposte ed è il Parlamento che lo deve determinare.   Il metodo con cui si è attuata la riforma rappresenta, invece, un’involuzione personalistica ed è questa che ha provocato la spaccatura anche fra i costituzionalisti e fra le associazioni.   Da qui l’indispensabilità, emersa nel dibattito del Seminario, di valutare gli aspetti politici unitamente a quelli di esclusivo merito della riforma: quale la situazione politica che si determinerebbe per effetto dell’esito del voto referendario? E questa, a seconda dell’esito, potrebbe consentire eventuali modifiche migliorative sia della riforma proposta che, anche, della legge elettorale o potrebbe, invece, congelare l’attuale situazione?

La conclusione del Seminario

Proprio in questa situazione sociale e politica il cattolicesimo democratico trova una sua nuova attualità, ha detto Prenna citando Giannino Piana a conclusione del Seminario, evidenziando la legittimità dei cattolici del no e dei cattolici del sì: siamo impegnati, infatti, da cattolici e non in quanto cattolici e nostro compito è illuminare la ragione e non provocare la fazione.

Dopo aver ribadito che nostro compito è quello di illuminare la ragione, sullo stile del documento di Città dell’Uomo, Prenna ha osservato che l’indicazione che emerge dal Seminario è quella di lavorare sui margini migliorativi possibili attraverso le leggi attuative della riforma costituzionale.

L’impegno dell’Associazione è quello di ripensare il cattolicesimo democratico sulla linea interpretativa indicata da Papa Francesco, e di dar vita a luoghi di formazione con percorsi seminariali anche di carattere stabile unitamente ad altre realtà associative, come la Fondazione “persona, comunità, democrazia”. Una forma potrebbe essere rappresentata dall’apertura di scuole di educazione alla politica nei territori: un’ipotesi specifica è nata proprio qui, nella sede di questo Seminario, in collaborazione con l’Associazione che ci ha ospitato, ha attivamente condiviso i lavori ed ha consentito l’esito positivo del nostro Seminario.

 

CATTOLICI DEL NO NEL REFERENDUM COSTITUZIONALE

CATTOLICI DEL NO NEL REFERENDUM COSTITUZIONALE

Conferenza stampa aperta ai cittadini

Roma

Federazione Nazionale della Stampa, Corso Vittorio Emanuele 349

21 Marzo 2016 – ore 16:30

Conferenza stampa, in vista del referendum per decidere se sostituire la Costituzione del 48 con la nuova Costituzione scritta dal governo:


Manifestazione con la partecipazione di:

Anna Falcone,

Alex Zanotelli,

Domenico Gallo,

ADISTA,

Raniero La Valle

che illustreranno le ragioni dei “Cattolici del NO” e i motivi

che legittimano i cittadini a lottare per la coerenza tra i loro valori più alti e la Costituzione repubblicana. Il prof. Luigi

Ferrajoli chiarirà il rapporto tra la seconda e la prima parte, ordinamento e principi, di una Costituzione indivisibile.

Con l’invito a partecipare, gradisca i più cordiali saluti.


Scarica il documento dichiarativo


Vedi Dossier: Referendum costituzionale

CON LA RIFORMA E CON LA COSTITUZIONE

CON LA RIFORMA E CON LA COSTITUZIONE

Giancarla Codrignani

da l’Unità 1/04/2016

Cari amici della Rete per la Costituzione,
intendo intervenire molto prima che si verifichi uno scontro insensato, perché io voterò SI’ al referendum, ma non intendo dissociarmi dall’associazionismo che difende la Costituzione.


Quando Giuseppe Dossetti nel 1994 mise in guardia il paese dai pericoli che correva la democrazia per la minaccia di un governo di Berlusconi e si formarono i Comitati che da lui presero il nome, c’erano già distinzioni tra noi tra chi privilegiava una legge elettorale con il “doppio turno alla francese” o il sistema tedesco. Oggi si assiste ad una sorta di impegno ultimativo tra opinioni contrapposte di costituzionalisti, dopo le tante esperienze registrate, dalla Commissione convocata dal governo Letta, alle 150 modificazioni del testo originario, alle oltre 5mila votazioni, agli 83 milioni di emendamenti presentati non più – un segno delle trasformazioni in corso – dai parlamentari, ma direttamente dall’elettronica.
I rischi che da anni corre la democrazia in Europa (e non solo) esigono il coraggio di traghettare i principi oltre trasformazioni realmente epocali. Nel 2012 non si parlava di helicopter drops, di stampare moneta della Bce da distribuire bypassando le banche; eppure abbiamo introdotto in Costituzione il pareggio di bilancio (art.81) senza vederne la pericolosità. Non ci siamo accorti che non “mani pulite”, ma la vetustà ha seppellito i partiti di governo (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli) e che la sinistra veniva scivolando e frammentandosi senza rinnovarsi. A quel tempo, quando il Parlamento si paralizzava, si andava ad elezioni anticipate: possibile, almeno nel 2016, mettere ordine per evitare che il Parlamento trascorra due settimane a parlare delle coppie di fatto, mentre c’è da provvedere al dissesto economico, alla disoccupazione, al mantenimento di Schengen, alla Libia, al terrorismo?
Non si rischierà nessuna dittatura se il Parlamento partendo dalle competenze renderà palese la dialettica con l’opposizione, anche quella interna alla maggioranza (impossibile silenziare un Fassina o un Civati o un Bersani). Ma non è più pensabile un proporzionale con le lobbies alla Mastella e i ricatti di chi pensa a guadagnare voti alle prossime elezioni (anticipate).
L’analisi non può fermarsi: sappiamo tutti (tranne i sindacati) che il lavoro non sarà mai più quello di prima; che il sistema globale chiede a tutti i paesi di riposizionarsi; che in Italia ci sarebbe stato davvero bisogno di quel check and balance oggi tanto menzionato, mentre non c’è mai stato controllo e il balance senatorio serviva per diluire nel tempo il lavoro legislativo. Purtroppo la sinistra riflette così poco sui propri fondamenti da non accorgersi che la gente legittima la candidatura elettronica con un pugno di voti di “nominati” e che gli italiani non sentono più il valore di essere prima di tutto europei, mentre fanno audience i neonazionalisti che vogliono le frontiere, pur sapendo che le immigrazioni sono un dato di realtà e che pagheranno comunque in euro i debiti e perderanno non solo gli Erasmus.
E che Dio ce la mandi buona e ci eviti di trasformare i conflitti in guerre. Senza ripetere l’art. 11 come un mantra, bisogna sollecitare il coordinamento europeo dell’intelligence e la formazione non solo di un’intelligence, ma di un esercito europeo (gli eserciti sono inevitabili anche per noi pacifisti) anche per razionalizzare la spesa di 28 eserciti nazionali inefficienti. Perché è il diventar guerra dei conflitti che fa perdere di vista, in tutti i casi, lo stato di diritto.


Vedi Dossier: Referendum costituzionale

LA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE: NON CONVINCE, CRESCONO TIMORI E PREOCCUPAZIONI

LA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE: NON CONVINCE, CRESCONO TIMORI E PREOCCUPAZIONI

Luigi Bottazzi

Aprile 2016

Già nel gennaio scorso Michele Ainis, sul “Corriere della Sera”, avvertiva che la cosiddetta riforma Renzi-Boschi-Verdini era “una riforma incompiuta sui ruoli e sui poteri”. Perchè c’è il rischio di dover aspettare molto tempo prima che arrivino le numerose leggi ordinarie attuative del 47 nuovi articoli della nostra Costituzione. Un ginepraio dove su molti aspetti decisivi il testo licenziato dal parlamento non decide, o meglio, rinvia la decisione alla legge specifica che verrà. E’ quindi giusta la critica sollevata dal fronte del NO: infatti abbiamo troppi poteri in capo al governo e pochi contropoteri, forse qualche efficienza in più ma poche garanzie per una democrazia che voglia essere rappresentativa della volontà popolare.


Anche nel mondo cattolico, pur nella sua varietà e nelle diverse sensibilità, sta crescendo una motivata preoccupazione per i rischi di un siffatto “nuovo” modello di articolazione costituzionale. E’ di pochi giorni fa un articolo di un illustre costituzionalista su “La Stampa”, già presidente della Corte Costituzionale, Ugo De Siervo di Firenze, allievo di Giorgio La Pira, che, fuori dai denti, dice “La Carta: doveroso cambiarla, ma non così!”. Questa è solo la punta di un più ampio movimento che sta nascendo tra i cattolici, almeno quelli capaci – per dirla con Giuseppe Lazzati – di “pensare politicamente”. Infatti a Roma lo scorso 21 marzo è stato presentato il Comitato dei “Cattolici del NO” con un appello intitolato “No alla democrazia dimezzata”, che invita ad un’attiva partecipazione al referendum consultivo di autunno, ritenendo il No una risposta coerente per il rigetto di una riforma che, fra l’altro, elimina il Senato come organo eletto dai cittadini e rappresentativo della sovranità popolare e che ingloba una legge elettorale perniciosa, già dichiarata incostituzionale in alcune sue parti (Italicum) dalla Consulta. Invita ad opporsi a quella che viene letta come una controriforma. I promotori del NO affermano, e credo sia difficile smentirli con le battute “spiritose” dei massimi esponenti del governo attuale. Essi sottolineano che nel nostro Paese i cristiani “già altre volte, in momenti cruciali della storia della Repubblica” sono stati determinanti con le loro scelte nei referendum per un avanzamento della democrazia e della laicità e per tenere aperta la via di vere riforme. Oggi – continua l’ Appello dei cattolici – ci sentiamo di nuovo chiamati a votare No alle spinte restauratrici per «una questione di giustizia», «di verità», per «patriottismo costituzionale», come spesso Dossetti incitava a fare, e per «coerenza storica»”. Le firme in calce al testo (vedi www.adista.it) si aprono con importanti nomi, fra cui, Anna Falcone (avvocata), Domenico Gallo (magistrato), Raffaele Nogaro (vescovo emerito di Caserta), Alex Zanotelli (missionario comboniano), Lorenza Carlassare (costituzionalista), Paolo Maddalena (vice-presidente emerito della Corte Costituzionale), Boris Ulianich (storico del cristianesimo). In particolare un “grido di dolore” per questa preoccupante deriva populista, proviene dal direttore, ai tempi del Concilio, de “L’Avvenire d’Italia”, Raniero La Valle, che in una lettera aperta del 18 aprile, quale presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione, ha indirizzato al Comitato bolognese del NO. In essa si evidenzia come “La riflessione durante la battaglia referendaria dovrà prendere in carico e approfondire l’analisi dello “scarto” che si è venuto a creare tra la Costituzione italiana e la natura barbara di questa ultima fase della storia d’Italia, d’Europa e del mondo; scarto che politici zelanti vorrebbero cancellare abbassando la Costituzione a specchio dell’esistente e addirittura a regressione al passato precostituzionale. Io credo – continua La Valle – che a noi tocchi un’altra scelta: tenere alto il disegno etico e istituzionale della Costituzione del ’48, richiamando la coscienza pubblica a onorarlo e a mantenerlo come traguardo sempre da raggiungere; e nello stesso tempo rimettere radicalmente in questione le attuali scelte politiche e di civiltà che ci stanno riportando nella notte”. I termini sono forbiti, ma la sostanze è chiara!

Ma ancor più pregnante, anche se meno polemico, è il documento di 56 costituzionalisti ‘contro’ la riforma della nostra Carta promosso e firmato da alcuni dei più importanti e noti costituzionalisti italiani. Oltre a Valerio Onida ed Enzo Cheli, lo hanno sottoscritto personalità di diverso orientamento culturale e politico, cattolici e laici, tra gli altri Gustavo Zagrebelsky, Francesco Paolo Casavola, Lorenza Carlassare, Ugo De Siervo, Gianmaria Flick, Paolo Maddalena, Franco Bile, Luca Antonini, Antonio Baldassarre, Franco Gallo, Fulco Lanchester, Fernando Santosuosso. Laddova si afferma che quella approvata dal Parlamento non è “l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi” della Carta o “di una sorta di nuovo autoritarismo” ma è però una potenziale e pericolosa fonte di nuove disfunzioni del nostro sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione (ad esempio la divisione dei poteri ).

Innanzitutto i costituzionalisti si dicono “preoccupati” per il fatto che il testo della riforma, “ascritto ad una iniziativa del governo, si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”però passando dal patto del Nazzareno di impronta berlusconiana, all’aiuto trasformistico e spregiudicato di Verdini) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un governo”. Questo perché “la Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre”.

Nel merito, scrivono, l’obiettivo, “pur largamente condiviso e condivisibile”, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto, è stato “perseguito in modo incoerente e sbagliato” perché il nuovo Senato risulta “estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo”. Inoltre “l’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa”.

E se ci sono “anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore” come la restrizione del potere del governo di adottare decreti legge o la previsione di tempi certi per il voto della Camera”. “Questi aspetti positivi – dicono i 56 – non sono tali da compensare gli aspetti fortemente critici”.

La situazione in cui ci troviamo credo sia ben tratteggiata da un volumetto, dal titolo “Riappropriarsi della democrazia”, uscito nel 2014 dalla Editrice Vaticana, di Mons. Mario Toso, vescovo di Faenza, uno dei “padri” ed animatori della Dottrina Sociale, che scrive “La crisi della democrazia è assieme alla sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e delle élites politiche democratiche sotto gli occhi di tutti. Le società stanno diventando sempre più diseguali, insicure e conflittuali. Oggi, non soltanto manca l’autorevolezza e l’efficacia dei detentori del potere politico, ma anche delle élites economiche e sociali. Diventa sempre più chiaro che se il mondo cattolico non vuole perdere uno stile di vita di tipo democratico e partecipativo, occorre procedere alla nascita di nuovi movimenti sociali, alla riforma dei partiti e delle molteplici istituzioni sociali, non esclusi i sindacati, che popolano il tessuto civile. Questo però non potrà accadere senza un rinnovato ethos della responsabilità sociale e non potrà esserci senza il rilancio dell’ideale di una democrazia sociale e veramente partecipativa”.


Vedi Dossier: Referendum costituzionale

L’autonomia e le differenziazioni regionali. I nodi pendenti

L’autonomia e le differenziazioni regionali. I nodi pendenti

Intervento introduttivo alla Giornata di studio su “L’autonomia regionale speciale nel titolo V in evoluzione” – Roma, CNR, 16/X/15

Gian Candido De Martin[1]

16 Ottobre, 2015

  1. Premessa metodologica

Qualche riflessione introduttiva per sollecitare il dibattito nei tre ambiti in cui è articolato il convegno, ponendo soprattutto alcune questioni e interrogativi sulla attuale fisionomia della specialità e sulla sua declinazione nel contesto di un sistema costituzionale che, da un lato valorizza il più possibile le autonomie territoriali, ma dall’altro deve mantenere coerenza con la fisionomia unitaria della Repubblica.


Si tratta di problemi assolutamente non trascurabili in questo primo incontro ad hoc di giuspubblicisti, promosso non dalle regioni interessate ma da organismi accademici e di ricerca (AIC, ISSIRFA e Centro Bachelet della Luiss), che affrontano una questione finora un po’ troppo trascurata o sottovalutata dai giuristi – compresi gran parte dei cultori di diritto regionale – anche se non è mancato un significativo accenno soprattutto alla ingiustificata disparità finanziaria tra regioni ordinarie e speciali nella relazione dei “saggi” 2013. Vanno peraltro aumentando segnali di attenzione da parte di qualificati economisti, alcuni anche qui coinvolti, mentre sono ormai ricorrenti nei contesti politici nazionali e regionali prese di posizione critiche sugli squilibri del doppio binario del regionalismo, peraltro finora poco tenute in conto da scelte parlamentari che sono (paradossalmente) orientate ad accantonare questo nodo, nonostante l’occasione della riforma del Titolo V in itinere.

Circoscrivo l’attenzione a tre punti, sintetizzando quanto mi sembra essenziale e tralasciando comunque in questa sede molti altri aspetti sulle vicende della differenziazione regionale, tra cui quelli legati alla inattuata previsione del terzo comma dell’art. 116 Cost., che pur meriterebbero una considerazione non marginale, così come quelli concernenti la condizione delle autonomie locali nelle regioni speciali.

In primo luogo si tratta di mettere a fuoco la situazione in atto in ciascuna delle cinque regioni speciali o province autonome in ordine al sistema delle fonti e all’assetto delle funzioni legislative e amministrative, laddove emergono alcuni tratti comuni ma per lo più storie e ordinamenti eterogenei. In secondo luogo si deve considerare il sistema delle relazioni di queste regioni con lo Stato, sia per quanto riguarda alcuni regimi comuni, per lo più regolati con leggi costituzionali riguardanti il complesso delle regioni speciali, ma soprattutto analizzando la pluralità di criteri, dinamiche e procedure che regolano questi rapporti, anche sul piano dei meccanismi di finanziamento di ciascuna delle regioni e province autonome. In terzo luogo si deve almeno accennare alla realtà effettiva presente in queste istituzioni a statuto speciale sul piano del reperimento e dell’uso delle risorse finanziarie, in cui emergono con evidenza da un lato le differenze – talora assai rilevanti e non facilmente comprensibili – tra le singole istituzioni speciali, dall’altro i nodi dei vari privilegi finanziari di cui godono per molti versi queste istituzioni territoriali rispetto a quelle di diritto comune, con conseguenti maggiori opportunità, spazi di azione e risultati (fermo restando che questi ultimi dipendono in larga misura anche dalla capacità di ciascun ente di operare concrete scelte utili nell’uso delle risorse disponibili).

  1. I chiaroscuri nell’assetto delle funzioni delle Regioni speciali

Sulla situazione in atto mi limito qui a sottolineare alcune questioni, rinviando per il resto tra l’altro ai vari contributi pubblicati in un volume Astrid (2013) coordinato da Luciano Vandelli, in cui si è fatto il punto in materia, anche con una ricognizione dello status quo differenziato tra le varie regioni speciali e province autonome, sia in ragione dei diversi statuti sia per un diverso rendimento.

Un aspetto certamente da approfondire riguarda il complicato sistema delle fonti che caratterizza le regioni speciali, frutto di una pluralità di interventi normativi di vario peso e forza giuridica: dai singoli statuti, a suo tempo approvati con legge costituzionale, alle leggi statutarie ex l. c. 2/01, con il seguito di varie leggi ordinarie rinforzate, in grado talora di decostituzionalizzare e incidere sugli statuti (come avvenuto da ultimo con alcune leggi di stabilità, con particolare riguardo dapprima alle province autonome di Trento e Bolzano e, successivamente, al Friuli Venezia Giulia e alla Valle d’Aosta). A ciò si aggiungono varie tipologie di accordi, per lo più bilaterali, oltre alla miriade di norme di attuazione sulle funzioni amministrative, frutto di intese nelle varie commissioni paritetiche. Di fatto appaiono eccezionali o assai ridotti gli interventi di portata generale riguardanti tutte le regioni speciali nel loro complesso.

Di qui un assetto delle funzioni sia legislative che amministrative molto disomogeneo tra le varie regioni speciali e province autonome, per lo più legate a negoziazioni bilaterali, in cui emerge con qualche frequenza un certo favor per le istanze di ciascuna regione (anche per via della fisionomia e delle modalità di funzionamento delle commissioni paritetiche). Pare comunque assai difficile ricostruire un quadro stabile delle competenze normative, amministrative e finanziarie di ciascuna regione speciale o provincia autonoma a causa dell’intreccio e della sovrapposizione delle fonti, con molte variazioni nel tempo e una precarietà accentuata dalle frequenti pronunce costituzionali (nel complesso tendenzialmente disponibili ad interpretazioni filoregionali, anche per l’indubbia abilità degli avvocati delle regioni o province interessate).

Basti pensare ai percorsi – talora tortuosi – della giurisprudenza costituzionale in riferimento all’art. 10 della l.c. 3/01, la quale, pur perseguendo la garanzia della maggior autonomia, ha prodotto effetti che hanno concorso ad aumentare il divario, da un lato, tra autonomie speciali e regioni a statuto ordinario e, dall’altro, all’interno della stessa specialità, in controtendenza rispetto a quanto prefigurato dalla riforma costituzionale del 2001 (come attesta da ultimo l’organico commentario sulle materie di competenza regionale, a cura di G.Guzzetta-F.S.Marini-D.Morana). Preferendo, infatti, ora il parametro costituzionale, ora quello statutario speciale, tale giurisprudenza ha finito per lasciare intatti ambiti materiali presidiati dagli statuti speciali ispirati a principi opposti a quelli che animano il vigente titolo V: si pensi, solo per fare un esempio, al limite dell’interesse nazionale, opponibile alle autonomie speciali nelle materie statutarie, non opponibile invece nelle materie “acquisite” in base alla c.d. clausola di maggior favore.

A ciò si aggiunge il continuo lavoro delle commissioni paritetiche, sollecitate ad agire anche dalle molte “rincorse” delle regioni speciali e province autonome per acquisire nuove competenze amministrative (e di fatto spesso anche legislative) dopo le varie riforme intervenute per le regioni di diritto comune (v. post dpr 616/77; post riforma Bassanini ex l. 59/97; post clausola di favor per la specialità ex art. 10 della riforma costituzionale del 2001; post l. 42/09 sul federalismo fiscale, nonché post riforma costituzionale degli artt. 81 e 97 del 2012).

Complessivamente emerge certamente un quadro intrecciato e in chiaroscuro, nel quale non è facile orientarsi, su cui possono essere preziose le riflessioni della prima sessione, a partire dalla relazione Poggi.

  1. Le garanzie procedurali della specialità nei rapporti con lo Stato

Al di là delle previsioni statutarie – riguardanti per lo più il quadro delle competenze legislative, l’assetto degli organi istituzionali e lo spazio di autonomia nell’organizzazione interna, che sono restate per lo più stabili, a parte la radicale revisione dello statuto del Trentino Alto Adige che ha spostato il baricentro sulle province autonome -, la specialità di ciascuna regione si è andata per lo più sviluppando sulla base di meccanismi e procedimenti negoziali non regolati dagli statuti (salvo per quanto riguarda la previsione delle commissioni paritetiche), ma che hanno assunto nel tempo una importanza assai significativa, anzi spesso condizionante anche per le determinazioni statali riguardanti le singole regioni ad autonomia differenziata.

In effetti, sulla scia pure di una giurisprudenza costituzionale che ha espresso un favor per questi meccanismi negoziali, frequentemente inscritti nell’ambito della prospettiva della “leale collaborazione” tra Stato e istituzioni regionali, si sono moltiplicate le garanzie procedurali che riconoscono alle regioni speciali e province autonome – a differenza di quanto previsto per le regioni ordinarie dal titolo V Cost. e dalla legislazione primaria che le riguarda – una posizione sempre più paritaria nelle relazioni con lo Stato. Mi limito qui solo ad accennare ai pareri obbligatori per le modifiche statutarie ex l.c. 2/01; poi ai vari tipi di accordi (da Milano ad Aosta) post art. 27 l. 42/09, volti a sancire un qualche impegno delle istituzioni territoriali speciali sul piano della solidarietà nazionale, essendo peraltro escluse dalle prospettive applicative del cd. federalismo fiscale (e accordi di questo tipo si sono poi ripetuti a seguito della legislazione 2011/2013 conseguente alla crisi economico-finanziaria).

Da ultimo va poi menzionato quanto si va prefigurando nella riforma costituzionale in itinere, in cui si rinvia a vere e proprie intese Stato/Regioni speciali la possibilità di applicazione a queste istituzioni di quanto viene previsto in ordine al ridimensionamento dei poteri regionali nel nuovo titolo V (v. infra, par.5).

Si sta in sostanza consolidando e dilatando una sorta di principio negoziale a fondamento e sostegno della specialità, una via procedurale e pattizia all’autonomia, forse frutto di un costituzionalismo proattivo e non difensivo (come lo ha qualificato P. Carrozza), su cui però vanno sollevati seri dubbi. Da un lato con riferimento al sistema costituzionale tuttora vigente e ai vincoli di sistema che si dovrebbero ricavarne, come sembra chiaramente emergere tra l’altro in recenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale (in controtendenza rispetto al passato) sulla portata generale del coordinamento della finanza pubblica. Dall’altro tenendo conto che stanno evidenziandosi differenze sempre più sostanziali in materia rispetto alle regioni ordinarie, le quali non godono certo di garanzie procedurali siffatte, né in base al titolo V vigente (oltretutto rimasto senza alcun seguito in ordine alle possibili differenziazioni delle regioni ordinarie ex 116 III), né tanto meno ex futuro titolo V, il quale mira chiaramente (e assai opinabilmente) a gerarchizzare a vario titolo il rapporto Stato/Regioni, sia con l’introduzione di una clausola di supremazia o flessibilità a favore del legislatore statale, sia con la riserva allo Stato di disposizioni generali e comuni nelle materie di competenza legislativa regionale.

Alla seconda sessione, anzitutto alla relazione Verde, il compito di approfondire questi complessi problemi.

  1. I privilegi finanziari delle autonomie speciali

C’è un terzo profilo, assai problematico, che nel convegno ci si propone di affrontare, quello relativo all’assetto finanziario delle regioni speciali e province autonome. A questo proposito si tratta anzitutto di mettere in luce che i diversi sistemi di finanziamento previsti per ciascuna regione speciale sono sostanzialmente volti a garantire risorse in base a criteri di riserva o di compartecipazione a proventi di tributi, non commisurati alle funzioni, bensì ad un criterio che finisce per riconoscere a ciascuna regione o provincia autonoma l’ammontare totale o una significativa percentuale dei tributi riscossi sul territorio, con situazioni limite, visto che in qualche caso – Bolzano, Trento Aosta – complessivamente si va ben oltre il 100% dell’intero gettito (dando vita ad una sorta di solidarietà rovesciata del sistema a favore delle regioni speciali).

Questo assetto determina, oltre a evidenti disparità tra le stesse regioni speciali – frutto per un verso delle differenti previsioni statutarie legislative riguardanti ciascuna regione, ma fors’anche di non identiche capacità negoziali – una situazione di evidente privilegio rispetto alle regioni ordinarie (e alle altre autonomie territoriali), il cui finanziamento è attualmente basato su criteri assai diversi, anche se oscillanti e spesso non commisurati oggettivamente o non perequati rispetto alle funzioni di competenza. D’altra parte, si deve osservare che in futuro ci si dovrebbe ancorare (finalmente) al criterio dei costi e fabbisogni standard oggettivi, ovviamente modulati in rapporto alla diversità dei territori (montani, isolani, ecc), secondo la ratio della legge sul cd. federalismo fiscale e, prima ancora, in ossequio a quanto stabilito dal principio cardine dell’art. 119, comma 4, sulla stretta correlazione tra funzioni e risorse, principio di fatto finora poco applicato ma che verrebbe ora rafforzato ed essere matrice di una impostazione basata in via generale su autonomie responsabili, premiando quelle virtuose.

La situazione in atto produce, in sostanza, ingiustificate e crescenti disparità di situazione e trattamento, ossia una specialità malintesa, fondata su benefici impensabili per cittadini e imprese ricompresi in regioni ordinarie in ordine all’effettivo godimento dei diritti civili e sociali, al welfare e alle reti di servizi e tecnologie, ad interventi infrastrutturali e di difesa del territorio e alla promozione dello sviluppo economico nei vari settori (basta scorrere i molteplici interventi legislativi nei vari campi ad opera delle regioni speciali e province autonome, oltretutto non sempre commendevoli, a partire da quelli che sanciscono prebende, garanzie e indennità varie dei componenti degli organi di governo e dei dirigenti e dipendenti regionali e locali, con disparità di trattamento che appaiono difficilmente giustificabili) . Di qui interrogativi ineludibili rispetto al principio di uguaglianza, alla garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, nonché alla ratio degli artt. 81 e 119 Cost., che dovrebbero essere perni di effettivi vincoli di sistema, così come di una solidarietà nazionale benintesa, nel quadro dei vincoli europei (come da ultimo si va affermando in varie pronunce della Corte costituzionale: v. ad es nn. 23, 39 e 61/14 e 19/15).

Alla terza sessione, a partire dalla relazione Antonini, il compito di approfondire questi delicati problemi, che hanno generato tra l’altro taluni interventi nazionali tampone assai opinabili sul piano della coerenza di sistema, oltre che di dubbia efficacia, ponendo a carico di talune delle istituzioni speciali in parola alcuni oneri per interventi di riequilibrio a beneficio dei comuni/territori contigui ubicati in regioni ordinarie (v. fondi cd. Letta, Brancher, Odi).

  1. Nuovi problemi e nessuna soluzione nella riforma costituzionale in itinere

Non si può infine non prendere in considerazione anche la questione del futuro delle autonomie speciali, alla luce della (ormai probabile) approvazione definitiva dell’art. 39, comma 13, del ddl cost. Renzi-Boschi, nel testo ora definito dal Senato in terza lettura (AC 2613-B), il quale rinvia a future intese con le regioni speciali e le province autonome la eventuale applicazione ad esse di quanto si va prefigurando sul versante regionale con le modifiche previste per il titolo V.

Emergono in tal senso almeno tre ordini di nuovi interrogativi, che si aggiungono agli intricati nodi dianzi accennati, da tempo pendenti, per i quali non si sta profilando alcuna ipotesi di risposta utile. In primo luogo si può osservare che questo rinvio complessivo – a fronte di una prima versione della norma de quo di opposta impostazione, perché volta ad estendere l’applicazione della riforma in itinere anche alle regioni speciali, peraltro subito corretta come “errore materiale” (?) – determina un’ulteriore fortissima divaricazione con le regioni ordinarie, a maggior ragione perché si ritiene – condividendo quanto hanno sostenuto S. Pajno e G. Rivosecchi in un saggio appena pubblicato da Astrid – che debba persistere la vigenza della clausola di adeguamento a favore delle regioni speciali prevista dall’art. 10 della riforma costituzionale del 2001, in base alla quale si è già realizzata la massima espansione competenziale delle autonomie speciali. Ed è appena il caso di aggiungere che tale espansione è destinata ad incrementarsi ulteriormente per via delle modifiche da ultimo introdotte dal Senato all’art. 39 XIII della riforma costituzionale in itinere, in virtù delle quali vengono estese comunque alle regioni speciali e province autonome tutte le competenze previste dal vigente 116 III, con una clausola volta altresì ad assicurare a tali istituzioni quanto si va prefigurando col nuovo 116 III.

In sostanza, a fronte della deriva statocentrica e di ridimensionamento di competenze e posizioni delle regioni di diritto comune che si va sancendo nella riforma costituzionale , lo scenario che nel contempo emerge è quello di autonomie speciali per nulla messe in discussione, anzi rafforzate di nuove competenze ex 116 III, ma senza far riferimento all’equilibrio di bilancio, richiesto invece alle regioni ordinarie. E non ci si può non chiedere se tutto ciò sia compatibile con l’impianto costituzionale unitario della Repubblica, fermo restando ovviamente il valore fondamentale del principio autonomistico, con le conseguenti possibili differenziazioni di modelli istituzionali, di ordinamento e di competenze.

Si pone poi la questione di una interpretazione del valore e della portata dell’intesa regionale in base alla quale – come previsto nel comma dell’art 39 in parola – dovrebbero avvenire le modifiche degli statuti speciali vigenti per applicare in qualche modo le innovazioni ora previste per le altre regioni del sistema. Semplificando, l’alternativa è tra il ritenere che l’intesa sia un vincolo stretto nell’ambito di una concezione sostanzialmente paritaria e pattizia degli statuti di autonomia, con la possibilità quindi per le regioni di opporsi e impedire modifiche non condivise (con un vero e proprio potere di veto, che potrebbe blindare gli statuti vigenti), oppure considerare l’intesa – convenendo con A. D’Atena – come un adempimento procedurale (chiarendo tra l’altro tra chi e come dovrebbe intervenire), per certi versi simile a quello previsto dalla l.c. 2/01 per le leggi statutarie, mirando possibilmente ad un accordo, senza però assolutamente impedire decisioni autonome del Parlamento. Interpretazione, quest’ultima, che appare certamente preferibile – nonostante la variante lessicale introdotta ora dal Senato, che prefigura l’intesa per una “revisione” più che per un “adeguamento” degli statuti speciali vigenti – tanto più considerando che in futuro tale decisione dovrebbe essere assunta con il necessario concorso del Senato delle autonomie, in cui si mira a realizzare la partecipazione istituzionale delle autonomie alle scelte legislative nazionali, anzitutto di natura costituzionale.

E ancora: tali modifiche degli statuti speciali sono da prevedere con il procedimento aggravato dell’art. 138 Cost., referendum compreso, oppure sulla base di procedure costituzionali ad hoc, ancora da definire e da approvare a valle della riforma costituzionale in itinere? È un terreno in larga misura incognito, complicato dalla certo non perspicua formulazione dell’art. 39 in questione, sulla cui interpretazione peraltro appaiono certo più persuasive le puntuali considerazioni di Pajno-Rivosecchi nel saggio citato, rispetto alle ipotesi di ddl costituzionale che le regioni speciali sembrano apprestarsi a proporre nell’ambito della cd. Commissione Bressa, ancorate – se non arroccate – su una concezione pattizia della specialità che finirebbe per consolidare una sorta di rendita di posizione, in grado sostanzialmente di condizionare decisioni del Parlamento che mirassero (finalmente) a ridefinirla in base a vincoli di sistema e alle esigenze connesse alla solidarietà nazionale.

  1. Gli interrogativi di fondo (per una specialità benintesa)

Riassumendo queste battute introduttive sui nodi pendenti, c’è anzitutto da chiedersi se si possa oggi sfuggire a porsi una questione di sistema sulle condizioni di una specialità regionale compatibile con il contesto costituzionale in evoluzione, ferma restando – come già detto – la possibilità di asimmetrie e differenziazioni di ordinamenti e competenze non solo a beneficio delle istituzioni regionali già in origine speciali ma anche delle regioni attualmente di diritto comune.

Non si tratta quindi tanto (o soltanto) di verificare la permanenza delle ragioni originarie della specialità di cinque regioni (pari ad un quarto delle istituzioni regionali del paese e a quasi un sesto della popolazione nazionale), ciascuna delle quali è sorta per motivazioni specifiche ed ha seguito percorsi propri (più o meno dinamici e coerenti), talora con miglioramenti radicali delle condizioni socio-economiche (in particolare quelle settentrionali), al punto che sarebbe del tutto ingiustificata la prosecuzione di regimi finanziari di favore (a parte ovviamente quelli per l’Alto Adige/Suedtirol legati a specifici vincoli – anche internazionali – in ordine alle garanzie di autogoverno e di tutela delle minoranze linguistiche).

Si tratta piuttosto (o soprattutto) di porsi alcuni interrogativi di fondo. In primo luogo, se debba considerarsi una sorta di dogma indiscutibile la perdurante diversità del trattamento costituzionale di alcuni enti regionali, che ha già generato un doppio binario con evidenti gravi squilibri – specie in alcuni casi – rispetto a vincoli di sistema che dovrebbero essere fatti valere ben più di quanto finora avvenuto. Ciò con riferimento anzitutto al coordinamento della finanza pubblica e alla ripartizione delle risorse, da correlare strettamente alle funzioni in base a costi standard, modulati in base a criteri oggettivi in rapporto alle diversità territoriali o di contesto, applicando quindi la ratio del 119 IV a tutte le autonomie territoriali del sistema repubblicano, a maggior ragione tenuto conto che le disparità di trattamento sono destinate ad aumentare dopo la riforma costituzionale in itinere, rischiando sempre più di minare la coesione nazionale e la tenuta del sistema repubblicano.

In secondo luogo, se non sia urgente – nell’ambito della prospettiva aperta dall’art. 39 della riforma costituzionale in itinere – dar spazio per le regioni speciali ad una nuova stagione statutaria, con una revisione che miri anche ad una coerenza di sistema e chiarisca in modo inequivocabile i vincoli che debbono sussistere per autonomie speciali benintese (“in armonia con la Costituzione e le riforme economico-sociali della Repubblica”), con il rilancio quindi di una diversità condivisa nell’unità nazionale (G. Demuro e I. Ruggiu 2011), evitando comunque che il (pur necessario) coinvolgimento regionale nelle procedure riformatrici si trasformi in una sorta di diritto di veto al cambiamento e al riequilibrio finanziario.

Infine – ma non certo ultimo – se l’interpretazione costituzionale non debba maggiormente tener conto, pure nelle more delle modifiche degli statuti delle autonomie speciali, di vincoli di sistema “da prendere sul serio” (L. Elia), anche come parametri nei giudizi di costituzionalità, evitando che il doppio binario regionale si consolidi in una rendita di posizione (sempre più) incompatibile con il principio unitario e con lo stesso principio autonomistico correttamente inteso, basato su autonomie effettivamente responsabili nel rapporto funzioni-risorse, e non privilegiate.


[1] Costituzionalista, Presidente del Consiglio scientifico dell’Istituto “V. Bachelet” dell’Azione Cattolica Italiana

Emerito di Istituzioni di diritto pubblico della LUISS Guido Carli di Roma


I CHIAROSCURI DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE

I CHIAROSCURI DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE

Scritto destinato agli atti del Convegno “Prospettive di riassetto delle autonomie territoriali alla luce della riforma del Titolo V in itinere”, svoltosi il 23 novembre 2015, presso l’Istituto A.C. Jemolo di Roma.

Gian Candido De Martin[1]

16 Ottobre, 2015

Sommario:

1. Problemi di metodo e di coerenza degli obbiettivi nel processo di revisione;

2. Un nuovo assetto bicamerale con un Senato rappresentativo delle autonomie territoriali;

3. Un netto rafforzamento dell’esecutivo in una prospettiva di sostanziale premierato forte;

4. Un forte ridimensionamento delle autonomie regionali ordinarie con una deriva neocentralista, peraltro non estesa alle regioni speciali;

5. Le contraddizioni col principio autonomistico nel nuovo sistema locale;

6. Una riforma comunque da completare (possibilmente già prima del referendum).


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[1] Costituzionalista, Presidente del Consiglio scientifico dell’Istituto “V. Bachelet” dell’Azione Cattolica Italiana

Emerito di Istituzioni di diritto pubblico della LUISS Guido Carli di Roma


Vedi Dossier: Referendum costituzionale

LUCI E OMBRE DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE L’Italia e l’ordinamento della Repubblica

LUCI E OMBRE DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE

L’Italia e l’ordinamento della Repubblica

Gian Candido De Martin[1]

da Dialoghi” – editoriale del n.4/2015

19 Novembre, 2015

La riforma costituzionale approvata dal senato a metà ottobre e destinata verosimilmente a concludere il suo iter parlamentare nel prossimo aprile, salva poi la verifica referendaria in autunno, riguarda a vario titolo oltre 40 articoli sull’ordinamento della Repubblica, con l’obbiettivo di superare il bicameralismo paritario e semplificare il procedimento legislativo (prevedendo la fiducia al governo della sola camera e un senato che diventa soprattutto la voce delle autonomie in parlamento), rafforzare la governabilità e ridefinire – anzi ridimensionare – condizione e ruolo di regioni ed enti locali. Si tratta di una riforma per certi versi da tempo attesa, in particolare per il superamento del doppione tra le due camere, al fine di modernizzare le istituzioni parlamentari in sintonia con gran parte degli stati europei, con un risultato politico non scontato, fortemente perseguito dal governo Renzi, che aveva dato avvio al dibattito con una propria iniziativa, utilizzando anche parte delle proposte formulate dai “saggi” nominati nel 2013 dal governo Letta e dal presidente Napolitano.


Questo ruolo forte del governo in una vicenda che dovrebbe vedere come protagonista principale il parlamento ha certo accentuato le contrapposizioni politiche e lo scarso spirito costituente che ha contrassegnato il dibattito parlamentare, in cui è in definitiva prevalsa più la ricerca di compromessi interni alla maggioranza – come sulle modalità di elezione dei senatori – piuttosto che la ricerca di sintesi condivise dalle principali componenti politiche, in vista anche di soluzioni più stabili nel tempo. Si sono tra l’altro registrati fenomeni inediti di ostruzionismo, talora folcloristico, con decine di milioni di emendamenti e uscite dall’aula di gran parte delle opposizioni, a segnare le difficoltà di portare in porto una riforma che ha avuto in senato un’esiguità di consensi su punti importanti, fors’anche per la ritrosia di molti senatori a varare una riforma destinata a penalizzarli.

Aldilà di queste considerazioni di metodo, si deve comunque valutare il merito del nuovo quadro costituzionale offerto dalla riforma, che taluno esalta come risolutiva e lungimirante, mentre altri demonizza paventando autoritarismi e rischi di sovvertimento degli equilibri tra i poteri. Ritengo personalmente che si debba distinguere tra alcune prospettive sicuramente positive, almeno sul piano potenziale,e una serie di aspetti problematici,che dovrebbero indurre a qualche ripensamento, riconoscendo comunque – in via generale – che la riforma può delineare un sistema per certi versi più semplice e efficiente nelle decisioni, con leggi più rapide e un governo più stabile e con poteri più incisivi. Non è certo poco, specie a fronte di una deriva delle istituzioni democratiche del nostro paese da tempo alle prese con tante difficoltà sul terreno della governabilità e della rappresentanza di un sistema plurale.

Ciò premesso, a voler riflettere brevemente sui tre punti principali del disegno riformatore – nuovo senato, governabilità, autonomie – vi sono evidenti chiaroscuri. In effetti, sul nuovo assetto del parlamento per un verso non si può che convenire sulla distinzione tra una camera politica, cui vengono affidate le decisioni legislative e la fiducia al governo, e un senato rappresentativo delle autonomie, con una posizione di massima subordinata nel procedimento legislativo (salvo per le leggi costituzionali e quelle concernenti a vario titolo regioni ed enti locali), anche se non si può sottacere che è assai barocca la previsione di ben nove varianti nell’iter legis, con evidenti difficoltà dei futuri regolamenti parlamentari nel disciplinare i raccordi tra i due rami del parlamento. Restano comunque aperti, per altro verso, numerosi interrogativi sul senato ad elezione indiretta, sia in ordine alla composizione ibrida (designazione dei senatori da parte dei consigli regionali – e non delle giunte – “in conformità alle scelte espresse dagli elettori”, dopo il faticoso compromesso che rinvia la soluzione del nodo a future norme statali e regionali; mentre per i comuni un solo sindaco per regione, oltretutto designato da un organo regionale, col rischio che vengano rappresentati i soli capoluoghi), sia in ordine al funzionamento, con l’incognita di membri a part-time, oltretutto con la scelta demagogica del costo zero.

Quanto alle prospettive di maggiore governabilità, le modifiche costituzionali – che si integrano con quelle connesse al nuovo sistema elettorale per la camera – certamente mirano a rafforzare di molto il ruolo dell’esecutivo, in certo modo concretando finalmente l’odg Perassi, approvato a suo tempo dall’assemblea costituente per evidenziare l’opportunità di ripensare in un secondo momento il rapporto governo-parlamento a fronte di scelte che allora – dopo i guasti del periodo fascista – avevano indotto ad attenuare la posizione del governo, puntando piuttosto sulla centralità del parlamento. Di fronte al nuovo assetto,che dovrebbe far evolvere il sistema politico in direzione di una netta semplificazione bipolare, se non bipartitica, non ci si può non porre la domanda sui rischi connessi a questo nuovo equilibrio dei poteri in cui la posizione forte del governo si abbina alla carenza di adeguati contrappesi e garanzie, circoscritti al presidente della Repubblica e alla corte costituzionale, con evidente rischio di una verticalizzazione e concentrazione di potere nell’esecutivo che può dar vita ad una sorta di presidenzialismo di fatto (anche se mi pare fuorviante parlare di una rottura democratica e di “un uomo solo al comando”).

Interrogativi ancor più consistenti sorgono a proposito della nuova revisione del titolo V in ordine alle autonomie regionali e locali. Infatti, se si è fatto un passo avanti rappresentando e valorizzando le autonomie territoriali nel riassetto del senato, si sono nel contempo materializzati orientamenti sostanzialmente assai contraddittori nella nuova disciplina costituzionale dei poteri delle regioni e degli enti locali, in cui si registra un’autentica e radicale inversione di rotta rispetto alla riforma del 2001, che intendeva realizzare un sistema policentrico di autonomie responsabili a tre livelli, spostando il più possibile il baricentro (specie dell’amministrazione pubblica) verso le varie comunità territoriali, considerate istituzioni costitutive della Repubblica. Tale disegno, vanificato da una sostanziale inattuazione, a parte il ricorrente conflitto tra stato e regioni nella definizione del riparto dei rispettivi poteri legislativi, viene ora in larga misura abbandonato, ridimensionando fortemente il ruolo dei soggetti autonomi, al punto che si potrebbe parlare di autonomie assai condizionate se non in balia del centro.

Semplificando, a parte talune opportune razionalizzazioni nel riparto legislativo, con la reintestazione alla legislazione nazionale di alcune materie, specie in campo di produzione dell’energia e di infrastrutture, appare evidente l’obbiettivo complessivo di ricentralizzazione del sistema, in evidente contraddizione tra l’altro col fondamentale principio autonomistico sancito nell’art. 5 della costituzione, in base al quale si dovrebbero il più possibile rafforzare regioni ed autonomie locali, attuando in concreto anche il principio di sussidiarietà. Invece si è tra l’altro inserita una clausola di supremazia e una riserva al legislatore nazionale di ingerenza in gran parte delle materie di competenza regionale. Le regioni vengono di fatto ridimensionate in enti di amministrazione, in parallelo con la soppressione delle province, degradate ad enti di area vasta (per ora assai evanescenti quanto ad ordinamento e funzioni), con un indebolimento complessivo della democrazia locale. E vi è un’ulteriore grave contraddizione, perchè questo ridimensionamento non riguarda le regioni speciali e province autonome, per le quali la riforma non si applica fino alla revisione dei rispettivi statuti, da realizzare d’intesa con le singole regioni interessate e quindi col rischio che non se ne faccia nulla. Si tratta di un’evidente disparità di trattamento, che accentua i privilegi (soprattutto) finanziari di cui attualmente godono queste regioni (pari ad un quarto del totale e ad un sesto della popolazione italiana), per cui si pone sempre più un interrogativo di fondo sulla legittimità sostanziale di questo doppio binario in contrasto con vincoli di sistema e con la coesione nazionale.

Come si vede, non sono pochi né trascurabili i limiti del testo di riforma fin qui approvato. Tutto ciò dovrebbe suggerire qualche ulteriore riflessione e interventi migliorativi, che però sembra debbano ormai essere rinviati ad una fase successiva, come auspicato anche dal presidente emerito Napolitano, considerato dalla ministra Boschi “il padre della riforma”. In definitiva quindi, accanto all’ apprezzamento per talune scelte potenzialmente utili per il funzionamento del sistema istituzionale e politico repubblicano, resta il rammarico per un risultato con molte ombre o incognite, che non agevoleranno oltretutto il compito degli elettori nel referendum del prossimo autunno, tanto più che non si potrà esprimere un sì o un no distinto per le singole parti, ma solo sulla riforma nel suo complesso (possibilmente evitando di trasformare il voto in un sì o no al governo in carica).


[1] Costituzionalista, Presidente del Consiglio scientifico dell’Istituto “V. Bachelet” dell’Azione Cattolica Italiana

Emerito di Istituzioni di diritto pubblico della LUISS Guido Carli di Roma


Vedi Dossier: Referendum costituzionale

Tra riforma costituzionale e referendum Appunti per il discernimento

Tra riforma costituzionale e referendum

Appunti per il discernimento

da Citta dell’uomo

Milano, 2 giugno 2016

70° anniversario della Repubblica

Lo scorso gennaio il Parlamento ha definitivamente approvato il ddl di revisione costituzionale riguardante il superamento del bicameralismo paritario e la ridefinizione delle competenze legislative dello Stato e delle regioni. Su tale provvedimento di modifica della II parte della Costituzione della Repubblica il corpo elettorale sarà chiamato a esprimere il proprio consenso o, al contrario, la propria opposizione, nel referendum già annunciato per l’autunno prossimo. In linea con la propria vocazione statutaria, Città dell’uomo ha ritenuto di predisporre un documento che si propone di offrire argomenti per riflettere sul processo riformatore in corso, senza voler condurre a una conclamata presa di posizione, ma fornendo elementi auspicabilmente utili alla maturazione di un pensiero critico.


Premessa

Fin dalla fondazione (1985), «Città dell’uomo» ha assunto in modo convinto e fermo l’impegno per una custodia attiva dei principi e dei valori della Costituzione repubblicana, pur nella consapevolezza di una necessaria riforma di alcuni suoi istituti rivelatisi non più adeguati rispetto ai cambiamenti socio-culturali e alle nuove esigenze politico-istituzionali via via intervenuti.

Ciò premesso, non è affatto agevole esprimere, come Associazione, un giudizio sintetico sulla revisione costituzionale approvata dalle Camere, che verrà sottoposta a referendum confermativo nel prossimo ottobre. Anche l’acceso dibattito degli ultimi tempi finisce con l’attestare la difficoltà di una simile impresa. Da una parte, v’è chi sottolinea con insistenza che, dopo troppi tentativi andati a vuoto, la presente occasione di riforma vada colta senza indugio, se si vuole ammodernare la struttura istituzionale del Paese, rifuggendo dai «conservatorismi nostalgici» a difesa di una Costituzione ormai invecchiata in più punti. Dalla parte opposta, si segnala invece che la revisione in atto, condotta senza la necessaria solemnité dibattimentale rispetto all’oggetto e approvata dalla sola maggioranza governativa, rischia di modificare, con gli istituti, anche alcuni architravi del nostro sistema costituzionale, fra i quali le nozioni di pluralismo istituzionale e di autonomia regionale, i modi della rappresentanza, la funzione del Governo, gli equilibri dei ruoli di garanzia.

Tenuto conto delle obiettive difficoltà, ci accingiamo, comunque, a offrire il nostro contributo, con la speranza che possa essere utile alla comune riflessione e al personale discernimento.

1) Come si è giunti ad oggi

Il tema delle riforme istituzionali è da tempo al centro del dibattito politico e parlamentare. L’attuale revisione costituisce l’esito di un percorso le cui radici affondano nei primi anni ’80, con le Commissioni Bozzi, poi De Mita-Iotti, quindi D’Alema-Berlusconi. Si è avuta, successivamente, l’affrettata riforma federalista del Titolo V (Legge cost. n. 3/2001). Ad essa hanno fatto seguito la richiesta di «premierato assoluto» e il progetto di separatismo leghista, voluti, rispettivamente, da Berlusconi e Bossi nel 2005. Da ultimo, vanno menzionate la Commissione dei cosiddetti «Saggi» introdotta da Napolitano (marzo 2013) e quella nominata da Letta (giugno 2013),chehanno concluso i loro lavori con la pubblicazione di ampi documenti. Il caotico processo è stato accompagnato, fra l’altro, dall’avvicendarsi di diversi sistemi elettorali, effettivi e “potenziali”, di fantasiosa denominazione: «Mattarellum», «Porcellum», «Consultellum», «Italicum».

Da questa rapidissima cronistoria si può trarre una prima considerazione: ci troviamo davanti ad una questione ‒ la revisione costituzionale, appunto ‒ oltremodo complessa, di difficile trattazione nel lacerato clima politico degli ultimi due/tre decenni e, in ogni caso, densa di ricadute sull’assetto democratico-istituzionale del nostro Paese. Fra le forze politiche, gli esperti di diritto e nella stessa opinione pubblica, resta tuttavia acquisito il convincimento circa la necessità di alcune modifiche della seconda parte della Costituzione, in modo da fluidificare i processi decisionali, rendere più efficienti le istituzioni e garantire effettivamente agli Enti territoriali, quali soggetti giuridici, la rappresentanza dei propri interessi in Parlamento (esigenza ‒ ricordiamo ‒ presente anche ai deputati dell’Assemblea costituente, i quali, data la difficoltà di accordarsi sulla natura della rappresentatività della seconda Camera, adottarono una formulazione dell’art. 57 piuttosto aperta, confidando in futuri adattamenti).

Tale convincimento si è particolarmente rafforzato a partire dagli anni ’90 per una serie di ragioni: a) la progressiva frammentazione del tessuto sociale del Paese, accompagnata dall’emergere di una cultura neo-liberista e di un’impostazione utilitaristica, difformi dalla visione personalistico-comunitaria che permea la nostra Carta e ne innerva i principi fondamentali; b) il processo d’integrazione europea, destinato a incidere in modo sempre più deciso sullo stesso impianto costituzionale; c) la crisi di legittimità e di consenso del tradizionale quadro politico, derivante dalla stagione costituente, con l’affermazione dei partiti personali e di leadership estranei alla logica propria della Costituzione; d) il passaggio da una forma di governo basata sulla centralità della rappresentanza partitica (e sulla mediazione tra i partiti) a una democrazia cosiddetta «governante», fondata sul primato dell’Esecutivo e del suo presidente.

Queste profonde trasformazioni rendono obiettivamente difficile rifiutare oggi, a priori, una prospettiva di revisione costituzionale. Ma la comprensibile esigenza di alcuni ritocchi alla seconda parte della Costituzione non giustifica affatto la diffusa retorica secondo cui una riforma sarebbe comunque preferibile al mantenimento dello status quo. Del resto, va anche detto che molte criticità odierne della politica e delle istituzioni sono da imputare non alla Carta del 1948, bensì ad un preoccupante calo di cultura civile e politico-istituzionale tanto nei partiti quanto in vasti settori dell’apparato statuale, delle autonomie locali, della pubblica amministrazione.

A questo punto, ci domandiamo: il testo oggetto del referendum di ottobre fornisce risposte adeguate alle nuove istanze istituzionali e socio-politiche nel pieno rispetto dello spirito democratico della Costituzione? Esso, in un’ottica (com’è quella propria di «Città dell’uomo») dei «valori da preservare» e degli «istituti da riformare», mantiene fede all’idea di una Carta costituzionale «amica», «compagna di strada» per ogni soggetto politico sia che si trovi, in un dato momento storico, in maggioranza o all’opposizione?

2) Il metodo adottato

Prima di entrare nel merito dei quesiti posti, vale la pena considerare intanto il metodo seguito nell’iter di approvazione del testo di riforma.

La legge di revisione costituzionale è stata approvata nel rispetto del procedimento fissato dall’art. 138 della Costituzione: un dato da salutare positivamente. Criticabile, però, almeno sul piano politico, è il fatto che l’iniziativa legislativa sia stata presa dal Governo. Ne sono derivati, infatti, incoercibili elementi di personalizzazione, spinte di tipo “particolaristico” e forme non velate di “ricatto”, che dalla sede parlamentare hanno finito con l’interferire anche sul pubblico dibattito relativo alla consultazione referendaria.

Per quanto concerne il referendum, occorre muovere subito un rilievo critico, accogliendo una puntuale osservazione già enunciata da Giuseppe Dossetti e ripresa nel 2006 da Leopoldo Elia, così sintetizzabile: in un processo di riforma costituzionale l’eventuale protagonismo assunto dal Governo fa sì che il «quesito implicito» (la fiducia all’Esecutivo) prevalga su quello «esplicito» (il merito della riforma). È quanto si sta verificando nel caso nostro, con il rischio, tutt’altro che secondario, d’interpretare l’appello referendario come una sorta di plebiscito nei confronti della compagine governativa e, più precisamente, del presidente del Consiglio dei Ministri. Del resto, proprio Renzi, nonostante il recente e condivisibile tentativo di smorzare un po’ i toni, ha conferito questo significato alla consultazione di ottobre.

Né si può dimenticare che la stretta maggioranza con cui si è approvata la revisione della Costituzione rappresenta il frutto di una “distorsione” prodotta dalla legge elettorale vigente nel 2013 (il cosiddetto «Porcellum»), che ha attribuito al Partito Democratico, vincitore, seppur di strettissima misura, delle elezioni del febbraio di quell’anno, un numero di seggi ben superiore rispetto al consenso ottenuto. Questa circostanza, ancorché spesso sottaciuta, getta un’ombra problematica sull’intera manovra. Nemmeno è pensabile che tale limite possa essere sanato dal referendum costituzionale, perché la maggioranza, senza quel premio eccessivamente elevato, non avrebbe potuto nemmeno concludere la fase parlamentare della revisione. Si tratta di un dato formale non facilmente superabile, dal momento che un vulnus all’esigenza di un’equa ripartizione quantitativa della rappresentanza del reale consenso acquisito in sede elettorale intacca la natura stessa della Costituzione.

3) I contenuti

L’eliminazione del bicameralismo perfetto o paritario è senz’altro una buona cosa, come lo è la fiducia al Governo affidata solo alla Camera dei deputati. Del resto, la trasformazione del Senato in luogo di rappresentanza delle Autonomie territoriali era da tempo tra i desideri e le speranze di larga parte degli esperti e dei politici.

Positivo è anche il fatto che non siano stati toccati gli articoli della Carta riguardanti la Magistratura e la Corte costituzionale, i poteri del presidente del Consiglio dei Ministri e del Governo. Per quanto concerne questi ultimi, è tuttavia prevista l’introduzione di un procedimento legislativo con votazione a «data certa» e ravvicinata sui ddl d’iniziativa governativa, che dovrebbe favorire una diminuzione delle decretazioni d’urgenza, di cui all’art. 77 della Costituzione.

Sono poi da salutare favorevolmente alcune delle nuove potestà del Senato, chiamato a: esercitare funzioni di raccordo fra Stato, Autonomie locali e Unione Europea; valutare le politiche pubbliche, ossia, verificare razionalità, efficacia, impatto dell’indirizzo politico e delle scelte degli organi governativi; vagliare la ricaduta delle politiche dell’UE sui territori nazionali; vigilare sulle principali nomine di competenza del Governo (per esempio, capo di Stato maggiore delle Forze armate, presidente della Cassa depositi e prestiti, presidenza Rai).

Nel complesso, risulta pure accettabile l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), che non ha dato gran prova di sé. Il discorso, almeno in parte, può valere anche per le Province, al cui posto, ma con ben diversa rilevanza istituzionale, subentrerebbe un «ente di area vasta»(sulla falsariga delle unioni o delle forme di aggregazione consortile fra i Comuni).Si osserva, ad ogni modo, che l’eliminazione (o la radicale trasformazione di tali organismi) non può non indurre a interrogarsi intorno agli effetti concreti in merito alla mediazione sociale e territoriale.

Giudizio nell’insieme favorevole va espresso, inoltre, a proposito delle più ampie maggioranze richieste per l’elezione del presidente della Repubblica e dei nuovi quorum referendari, nonché del vaglio preventivo delle leggi elettorali da parte della Corte costituzionale. Non bisogna, per altro, sottacere il pericolo insito nel combinato disposto fra la riforma costituzionale e la nuova legge elettorale, a vocazione maggioritaria, per la Camera dei deputati (il cosiddetto «Italicum»). Il sistema si articola, infatti, in due turni, dei quali il primo è sempre necessario, mentre l’altro (il ballottaggio) ricorre solo nell’ipotesi in cui, alla prima tornata, nessuna lista (cioè, nessun partito) ottenga una percentuale di voti pari o superiore, su scala nazionale, al 40% del totale.

Qualora al primo turno un partito abbia raggiunto un numero di voti coincidente o superiore a tale soglia, si vedrà attribuire, per effetto del cospicuo premio di maggioranza previsto, un numero di seggi pari al 54% del totale. Al contrario, ove al primo turno nessuna lista pervenga al 40%, accederanno al ballottaggio le due più votate: l’esito della seconda tornata decreterà il vincitore finale, al quale, in ogni caso, sempre in applicazione del premio di maggioranza, sarà attribuito il 54% dei seggi della Camera dei deputati.

È, dunque, possibile che un partito, pur avendo conseguito al primo turno un numero non particolarmente elevato di voti, in caso di vittoria al ballottaggio ottenga una netta maggioranza (54%, appunto) di seggi. In questo modo, vi è anche il rischio che tale partito, con una così forte maggioranza alla Camera dei deputati, “governi”, di fatto, la stessa elezione degli organi di garanzia costituzionale (in primis, quella del Capo dello Stato), chiamati a tutelare soprattutto le minoranze.

Sulla composizione del Senato, che prevede 74 senatori-consiglieri regionali, 21 senatori-sindaci e 5 senatori settennali per alti meriti, si possono avanzare robuste critiche, essendo essa frutto di diversi compromessi al ribasso. Così configurata, la Camera alta assume un tono pressoché “dopolavoristico”, non mitigato in maniera convincente dall’asserito ‒ invero, futuribile e modesto ‒ alleggerimento dei costi della politica. Il tutto fa temere una sua possibile subalternità rispetto alla Camera dei deputati, sancita da una sorta di cooptazione “minimalistica”del personale politico, che finirebbe con l’essere inevitabilmente “gregario”.Tale debolezza di fondo potrebbe ripercuotersi sulla reale efficacia del nuovo Senato. È certo, d’altra parte, che, sia rispetto al procedimento di nomina (pertinente alle Regioni) dei senatori/consiglieri regionali e dei senatori/sindaci sia per il funzionamento e l’organizzazione interna dello stesso Senato, molto dipenderà, in termini di funzionalità ed efficacia, dalla disciplina affidata, rispettivamente, alla legge elettorale per la designazione dei senatori e, soprattutto, al regolamento della seconda Camera.

Quantunque in linea, per molti aspetti, con l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, non sembra condivisibile nemmeno l’impianto complessivo dato alla riforma del Titolo V in materia di competenze legislative delle Regioni, sebbene siano concrete le istanze cui si cerca di rispondere (eccessiva conflittualità nell’odierno rapporto tra Stato ed Enti regionali sulle rispettive competenze, rilevante crescita della spesa pubblica e dei fenomeni di corruzione a livello locale). Simili risposte, infatti, non risultano del tutto appropriate. Basti dire che la riduzione delle attribuzioni regionali e l’introduzione della clausola di supremazia, cioè la prevalenza formale della legge dello Stato su quella delle Regioni, legata alla presenza di un troppo vago «interesse nazionale», rappresentano un passo indietro in termini di valore dell’autonomia. È discutibile, infine, che non sia stato fatto nulla per conferire un nuovo assetto alle Regioni a statuto speciale, le quali mantengono privilegi oggi non più giustificati.

4) Valutazioni conclusive

Al di là di più dettagliate considerazioni giuridiche riguardanti il merito della legge di revisione, che lasciamo ad altra sede, un giudizio complessivo sulla riforma non può non tener conto anche della scarsa qualità del testo con cui è formulata, farcito di diversi errori di grammatica e di sintassi costituzionale. Si tratta di limiti dovuti sia alle troppe compromissioni resesi necessarie nel corso dell’iter parlamentare per ottenere i dovuti consensi intorno all’elaborato in fieri sia alla già denunciata mancanza di solemnité, che una così cospicua impresa riformistico-costituzionale avrebbe richiesto e a una cultura del «fare purchessia», incarnata dal Governo in carica.

Lo stesso discorso secondo cui la riforma potrebbe essere perfezionata in futuro dichiara, da subito, che l’impostazione riformatrice avrebbe potuto e dovuto essere sviluppata meglio, evitando così il pericolo di sminuire il ruolo di legame duraturo e intergenerazionale proprio della Carta costituzionale. È, quest’ultimo, un punto decisivo per una valutazione sintetica del testo.

A tale proposito, non ci si può esimere dal sottolineare che una riforma così corposa, votata solo dalla maggioranza governativa, rischia di pregiudicare il senso della Costituzione come insieme di regole condivise, contravvenendo alle quali, potrebbe ingenerarsi una pericolosa spirale di “ritorsioni”, con grave nocumento per la stessa stabilità costituzionale. Questa pregiudiziale di metodo non va accantonata con generici (e, verosimilmente, non ingenui) riferimenti all’eccezionalità del momento.

Come sappiamo, in sede di consultazione referendaria il giudizio “politico” e di merito del testo di riforma si esprime con una pronuncia secca: Sì – No, bisognoso, in ogni caso, di ponderazione adeguatamente informata e sottratta a impulsi emotivi. Sappiamo altresì che nell’eventualità di una bocciatura del testo in oggetto la tenuta della compagine governativa e la posizione dello stesso presidente del Consiglio andrebbero, con ogni probabilità, in frantumi.

La nostra Associazione ha piena consapevolezza della gravità della posta in gioco, considerata anche in rapporto alla difficile situazione socio-economica del Paese e ai tutt’altro che rassicuranti scenari internazionali. Ma, tutto questo non può essere agitato come una sorta di “ricatto” per almeno due buoni ragioni: intanto, non è detto che, anche nell’eventualità di una disapprovazione popolare della riforma, non possano prevalere rapide soluzioni in grado di garantire, seppur con inevitabili cambiamenti, una linea di continuità dell’Esecutivo sino alla naturale scadenza della legislatura; secondariamente, ci preme sottolineare che, nel rispetto dello Statuto e della tradizione trentennale maturata da «Città dell’uomo», la giusta preoccupazione riguardo al destino di un Governo, per quanto importante possa essere, non va anteposta al bene più grande della tutela dei princìpi/valori e degli equilibri democratici garantiti dalla Carta costituzionale.

In questa prospettiva si colloca il presente documento, steso con animo libero e responsabile. Ci auguriamo che lo sforzo compiuto per evidenziare luci e ombre della complessa riforma costituzionale 2016 possa positivamente concorrere al dibattito in corso ed essere di aiuto al doveroso discernimento personale in vista della consultazione referendaria.


Il referendum del secolo?

Il referendum del secolo?

Lino Prenna

4 Giugno 2016

Al titolo, sparato da Avvenire, sulla prima pagina di domenica 22 maggio, per salutare la “battaglia” referendaria, avviata da Renzi a Bergamo, il giorno prima, abbiamo aggiunto un punto interrogativo, per una sorta di attitudine prudenziale che ci accompagna nella valutazione degli eventi umani, in genere, e politici in particolare, piccoli o grandi che siano, e che ci aiuta a relativizzarli, ma anche, nel caso, per un certo fastidio della retorica renziana, nella quale anche il “quotidiano di ispirazione cattolica” è caduto.


Con questo, non vogliamo dire che il referendum confermativo, previsto per ottobre, non sia importante. Anzi, recuperando il significato di questo participio presente, oggi inflazionato come aggettivo, ci importa, ci preme, ci sta a cuore. Né vogliamo dire che i giornali, compreso Avvenire, non possano legittimamente schierarsi dove ritengano meglio o più comodo! È che non ci è piaciuta l’impostazione aggressiva data dal Governo alla campagna referendaria: la riforma come panacea di tutti gli annosi mali e il referendum come ultima chiamata al Paese perché possa decollare. Senza dire dell’intimidazione che avvertiamo nella personalizzazione del referendum fatta dal presidente del Consiglio e delle infelici esternazioni del ministro delle Riforme contro la minoranza interna dem e l’Associazione Nazionale Partigiani. Perciò, almeno da Avvenire, ci aspetteremmo contributi a capire, non a celebrare, a suggerire ipotesi non ad affermare tesi, a ragionare più che a emozionare.

L’associazione Agire politicamente considera la campagna referendaria non un terreno di scontro ma un’occasione di confronto democratico e di coinvolgimento dei cittadini, mancati, peraltro, nel corso del dibattito parlamentare, sulle varie materie. Pertanto, ha apprezzato gli autorevoli richiami venuti da varie parti ad abbassare i toni della polemica e, in occasione dell’assemblea annuale, tenuta a metà maggio, ha deliberato di dedicare alla riforma costituzionale il seminario estivo di fine agosto, con l’intento di sviluppare una attenta e serena riflessione critica sul merito delle questioni in gioco. Vogliamo soprattutto capire, nello spirito di fedeltà alle scelte dei Costituenti ma anche nella consapevolezza delle urgenze di cambiamento, quale democrazia prefiguri il nuovo assetto istituzionale, non solo ai livelli centrali del potere legislativo ed esecutivo, con una legge elettorale di sospetta incostituzionalità, ma anche in riferimento agli spazi di autonomia e di partecipazione, al principio di sussidiarietà e di prossimità, alla rilevanza territoriale degli enti locali, ridisegnati dal nuovo Titolo V.

Come scriviamo nel programma, il seminario intende proporre un percorso ragionato alla responsabile libertà del voto referendario.


Vedi LA RIFORMA COSTITUZIONALE: QUALE DEMOCRAZIA? – Seminari di Agire Politicamente – estate 2016

Vedi Dossier: Referendum costituzionale

La verità sul referendum

La verità sul referendum

Discorso tenuto il 16/09/2016 a Messina nel Salone delle bandiere del Comune in un’assemblea sul referendum costituzionale promossa dall’ANPI e dai Cattolici del NO e il 17/09/2016 a Siracusa in un dibattito con il prof. Salvo Adorno del Partito Democratico, sostenitore delle ragioni del Sì.

Raniero La Valle

Messina, 16/09/2016

Cari amici,

poichè ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose. Non sarebbe necessario essere qui per dirvi come sono andate le cose, se noi ci trovassimo in una situazione normale. Ma se guardiamo quello che accade intorno a noi, vediamo che la situazione non è affatto normale. Che cosa infatti sta succedendo?


Succede che undici persone al giorno muoiono annegate o asfissiate nelle stive dei barconi nel Mediterraneo, davanti alle meravigliose coste di Lampedusa, di Pozzallo o di Siracusa dove noi facciamo bagni e pesca subacquea. Sessantadue milioni di profughi, di scartati, di perseguitati sono fuggiaschi, gettati nel mondo alla ricerca di una nuova vita, che molti non troveranno. Qualcuno dice che nel 2050 i trasmigranti saranno 250 milioni.

E l’Italia che fa? Sfoltisce il Senato.

E’ in corso una terza guerra mondiale non dichiarata, ma che fa vittime in tutto il mondo. Aleppo è rasa al suolo, la Siria è dilaniata, l’Iraq è distrutto, l’Afganistan devastato, i palestinesi sono prigionieri da cinquant’anni nella loro terra, Gaza è assediata, la Libia è in guerra, in Africa, in Medio Oriente e anche in Europa si tagliano teste e si allestiscono stragi in nome di Dio.

E l’Italia che fa? Toglie lo stipendio ai senatori.

Fallisce il G20 ad Hangzhou in Cina. I grandi della terra, che accumulano armi di distruzione di massa e si combattono nei mercati in tutto il mondo, non sanno che pesci pigliare e il vertice fallisce. Non sanno che fare per i profughi, non sanno che fare per le guerre, non sanno che fare per evitare la catastrofe ambientale, non sanno che fare per promuovere un’economia che tenga in vita sette miliardi e mezzo di abitanti della terra, e l’unica cosa che decidono è di disarmare la politica e di armare i mercati, di abbattere le residue restrizioni del commercio e delle speculazioni finanziarie, di legittimare la repressione politica e la reazione anticurda di Erdogan in Turchia e di commiserare la Merkel che ha perso le elezioni amministrative in Germania.

E in tutto questo l’Italia che fa? Fa eleggere i senatori dai consigli regionali.

E ancora: l’Italia è a crescita zero, la disoccupazione giovanile a luglio è al 39 per cento, il lavoro è precario, i licenziamenti nel secondo trimestre sono aumentati del 7,4 % rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, raggiungendo 221.186 persone, i poveri assoluti sono quattro milioni e mezzo, la povertà relativa coinvolge tre milioni di famiglie e otto milioni e mezzo di persone.

E l’Italia che fa? Fa una legge elettorale che esclude dal Parlamento il pluralismo ideologico e sociale, neutralizza la rappresentanza e concentra il potere in un solo partito e una sola persona.

Ma si dice: ce lo chiede l’Europa. Ma se è questo che ci chiede l’Europa vuol dire proprio che l’istituzione europea ha completamente perduto non solo ogni residuo del sogno delle origini ma anche ogni senso della realtà e dei suoi stessi interessi vitali.

Ma se questa è la distanza tra la riforma costituzionale e i bisogni reali del mondo, dell’Europa, del Mediterraneo e dell’Italia, la domanda è perché ci venga proposta una riforma così.

La verità è rivoluzionaria, ma se si viene a sapere

E’ venuto dunque il momento di dire la verità sul referendum. La verità è rivoluzionaria nel senso che interrompe il corso delle cose esistenti e crea una situazione nuova.

Il guaio della verità è che essa si viene a sapere troppo tardi, quando il tempo è passato, il kairós non è stato afferrato al volo e la verità non è più utile a salvarci.

Se si fosse saputa in tempo la bugia sul mai avvenuto incidente del Golfo del Tonchino, la guerra del Vietnam non ci sarebbe stata, l’America non sarebbe diventata incapace di seguire la via di Roosevelt, di Truman, di Kennedy, e avrebbe potuto guidare l’edificazione democratica e pacifica del nuovo ordine mondiale inaugurato venti anni prima con la Carta di San Francisco.

Se si fosse conosciuta prima la bugia di Bush e di Blair, e saputo che le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non c’erano, non sarebbe stato devastato il Medio Oriente, il terrorismo non avrebbe preso le forme totali dei combattenti suicidi in tutto il mondo e oggi non rischieremmo l’elezione di Trump in America.

Se si fosse saputa la verità sul delitto e sui mandanti dell’uccisione di Moro, l’Italia si sarebbe salvata dalla decadenza in cui è stata precipitata.

Dunque la verità del referendum va conosciuta finché si è in tempo.

Ma la verità del referendum non è quella che ci viene raccontata. Ci dicono per esempio che la sua prima virtù sarebbe il risparmio sui costi della politica, e che i soldi così ottenuti si darebbero ai poveri. Ma così non è: secondo la Ragioneria Generale dello Stato, il cui compito è di verificare la certezza e l’affidabilità dei conti pubblici, il risparmio si ridurrebbe a cinquantotto milioni che si otterrebbero togliendo la paga ai senatori, mentre resterebbe il costo del Senato, e i poveri non c’entrano niente.

L’altra virtù del referendum sarebbe il risparmio sui tempi della politica. Ci dicono infatti di voler abolire la navetta delle leggi tra Camera e Senato. Ma così non è. In realtà si allungano i tempi della produzione legislativa; infatti si introducono sei diversi tipi di leggi e di procedure che ricadono su ambedue le Camere: 1) le leggi sempre bicamerali, Camera e Senato, come le leggi costituzionali, elettorali e di interesse europeo; 2) le leggi fatte dalla sola Camera che entro dieci giorni possono essere richiamate dal Senato; 3) le leggi che invadono la competenza regionale che il Senato deve entro dieci giorni prendere in esame; 4) le leggi di bilancio che devono sempre essere esaminate dal Senato che ha quindici giorni per proporre delle modifiche; 5) le leggi che il Senato può chiedere alla Camera di esaminare entro sei mesi; 6) le leggi di conversione dei decreti legge che hanno scadenze e tempi convulsi se richiamate e discusse anche dal Senato. Ciò crea un intrico di passaggi tra Camera e Senato e un groviglio di competenze il cui conflitto dovrebbe essere risolto d’intesa tra gli stessi presidenti delle due Camere che configgono tra loro.

Ci dicono poi che col referendum si assicura la stabilità politica, e almeno fino a ieri ci dicevano che al contrario se perde il referendum Renzi se ne va. Ma queste non sono le verità del referendum. Finché si resta a questo la verità del referendum non viene fuori.

Non è la legge Boschi il vero oggetto del referendum

La verità del referendum sta dietro di esso, è la verità nascosta che esso rivela: il referendum infatti non è solo un fatto produttore di effetti politici, è un evento di rivelazione che squarcia il velo sulla situazione com’è. È uno svelamento della vera lotta che si sta svolgendo nel mondo e della posta che è in gioco. Il referendum come cunto de li cunti, potremmo dire in Sicilia, il racconto dei racconti, come togliere il velo del tempio per vedere quello che ci sta dietro, se ci sta Dio o l’idolo. Il referendum come rivelatore dello stato del mondo.

Ora, per trovare la verità nascosta del referendum, il suo vero movente, la sua vera premeditazione, bisogna ricorrere a degli indizi, come si fa per ogni giallo.

Il primo indizio è che Renzi ha cambiato strategia, all’inizio aveva detto che questa era la sua vera impresa, che su questo si giocava il suo destino politico. Ora invece dice che il punto non è lui, che lui non è la vera causa della riforma, ha detto di aver fatto questa riforma su suggerimento di altri e ha nominato esplicitamente Napolitano; ma è chiaro che non c’è solo Napolitano. Prima ancora di Napolitano c’era la banca J. P. Morgan che in un documento del 2013, in nome del capitalismo vincente, aveva indicato quattro difetti delle Costituzioni (da lei ritenute socialiste) adottate in Europa nel dopoguerra: a) una debolezza degli esecutivi nei confronti dei Parlamenti; b) un’eccessiva capacità di decisione delle Regioni nei confronti dello Stato; c) la tutela costituzionale del diritto del lavoro; d) la libertà di protestare contro le scelte non gradite del potere.

Prima ancora c’era stato il programma avanzato dalla Commissione Trilaterale, formata da esponenti di Stati Uniti, Europa e Giappone e fondata da Rockefeller, che aveva chiesto un’attenuazione della democrazia ai fini di quella che era allora la lotta al comunismo. E la stessa cosa vogliono ora i grandi poteri economici e finanziari mondiali, tanto è vero che sono scesi in campo i grandi giornali che li rappresentano, il Financial Times ed il Wall Street Journal, i quali dicono che il No al referendum sarebbe una catastrofe come il Brexit inglese. E alla fine è intervenuto lo stesso ambasciatore americano che a nome di tutto il cocuzzaro ha detto che se in Italia viene il NO, gli investimenti se ne vanno.

Ebbene quelle richieste avanzate da questi centri di potere sono state accolte e incorporate nella riforma sottoposta ora al voto del popolo italiano. Infatti con la riforma voluta da Renzi il Parlamento è stato drasticamente indebolito per dare più poteri all’esecutivo. Delle due Camere di fatto è rimasta una sola, come a dire: cominciamo con una, poi si vedrà. Il Senato lo hanno fatto così brutto deforme e improbabile, che hanno costretto anche i fautori del Senato a dire che se deve essere così, è meglio toglierlo. Inoltre il potere esecutivo sarà anche padrone del calendario dei lavori parlamentari. Il rapporto di fiducia tra il Parlamento ed il governo viene poi vanificato non solo perché l’esecutivo non avrà più bisogno di fare i conti con quello che resta del Senato, ma perché dovrà ottenere la fiducia da un solo partito. La legge elettorale Italicum prevede infatti che un solo partito avrà – quale che sia la percentuale dei suoi voti, al primo turno o al ballottaggio – la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera (340 deputati su 615). Il problema della fiducia si riduce così ad un rapporto tra il capo del governo e il suo partito e perciò ricadrà sotto la legge della disciplina di partito. Quindi non sarà più una fiducia libera, non sarà una vera fiducia, sarà per così dire un atto interno di partito, che addirittura può ridursi al rapporto tra un partito e il suo segretario.

Per quanto riguarda le altre richieste dei poteri economici, i diritti del lavoro sono stati già compromessi dal Jobs act, il rapporto tra Stato e Regioni ha subito un rovesciamento, perché dall’ubriacatura regionalista si ritorna a un centralismo illimitato, mentre, assieme alla riduzione del pluralismo politico, ci sono delle procedure che renderanno più difficili le forme di democrazia diretta come i referendum o le leggi di iniziativa popolare, e quindi ci sarà una diminuzione della possibilità per i cittadini di intervenire nei confronti del potere.

Questo è il disegno di un’altra Costituzione. La storia delle Costituzioni è la storia di una progressiva limitazione del potere perché le libertà dipendono dal fatto che chi ha il potere non abbia un potere assoluto e incontrollato, ma convalidato dalla fiducia dei Parlamenti e garantito dal costante controllo democratico dei cittadini. E’ questo che ora viene smontato, per cui possiamo dire che la democrazia in Italia diventa ad alto rischio.

Ma a questo punto è chiaro che quello che conta non è più Renzi, ed è chiaro che quanti sono interessati a questa riforma gli hanno detto di tirarsi indietro, perché a loro non interessa il sì a Renzi, interessa che non vinca il no alla riforma.

Il secondo indizio è il ritardo della data della convocazione, che non è stata ancora fissata dal governo; ciò vuol dire che la partita è troppo importante per farne un gioco d’azzardo, come ne voleva fare Renzi, mentre i sondaggi e le sconfitte alle amministrative sono stati inquietanti. Perciò occorreva meno baldanza da Miles Gloriosus e più preparazione. E occorreva alzare il livello dello scontro, e soprattutto ci voleva il riarmo prima che si giungesse allo scontro finale. Il riarmo per acquisire la superiorità sul terreno era l’acquisto del controllo totale dell’informazione, non solo i giornali, di fatto già posseduti, ma radio e TV, ciò che è stato fatto in piena estate con le nomine alla RAI.

Se davvero si trattava di scorciare i tempi e distribuire un po’ di sussidi ai poveri, non c’era bisogno del controllo totale dell’informazione.

Inoltre bisognava distruggere il principale avversario e fautore politico del No, il Movimento 5 Stelle. Questo spiega l’attacco spietato e incessante alla Raggi. E poi ci volevano i tempi supplementari per distribuire un po’ di soldi con la legge finanziaria.

C’è poi un terzo indizio. Interrogato sul suo voto Prodi dice: non mi pronunzio perché se no turbo i mercati e destabilizzo l’Italia in Europa. Dunque non è una questione italiana, è una questione che riguarda l’Europa, è una questione che potrebbe turbare i mercati. Insomma è qualcosa che ha a che fare con l’assetto del mondo.

Lo spartiacque non è stato l’11 settembre

A questo punto è necessario sapere come sono andate le cose.

Partiamo dall’11 settembre di cui si è tanto parlato ricorrendone l’anniversario in questi giorni.

Il mondo è cambiato l’11 settembre 2001? Tutti hanno detto così. Ma il mondo non è cambiato quel giorno: quello è stato il sintomo spaventoso della malattia che già avevamo contratto. L’11 settembre ha mostrato invece il suo volto il mondo che noi stessi avevamo deciso di costruire dieci anni prima.

Nel 1991 con dieci anni di anticipo sulla sua fine fu da noi chiuso il Novecento, tanto che uno storico famoso lo soprannominò “Il secolo breve” e così fu dato inizio a un nuovo secolo, a un nuovo millennio e a un nuovo regime che nella follia delle classi dirigenti di allora doveva essere quello definitivo, tanto è vero che un economista famoso lo definì come la “fine della storia” .

Quello che avevamo fatto dieci anni prima dell’11 settembre è che avevamo deciso di rispondere alla fine del comunismo portando un capitalismo aggressivo fino agli estremi confini della terra; avevamo deciso di rispondere alla cosiddetta fine delle ideologie trasformando il capitalismo da cultura a natura, promuovendolo da ideologia a legge universale, da storicità a trascendenza; avevamo preteso di superare il conflitto di classe smontando i sindacati, avevamo deciso di sfruttare la fine della contrapposizione militare tra i blocchi facendo del Terzo Mondo un teatro di conquista.

La scelta decisiva, che non si può chiamare rivoluzionaria perché non fu una rivoluzione ma un rovesciamento, e dunque fu una scelta restauratrice e totalmente reazionaria, fu quella di disarmare la politica e armare l’economia ma non in un solo Paese, bensì in tutto il mondo. Non essendoci più l‘ostacolo di un mondo diviso in due blocchi politici e militari, eguali e contrari, l’orizzonte di questo regime fu la globalità, la mondialisation come dicono i francesi, si stabilì un regime di globalità esteso a tutta la terra.

Quale è stato l’evento in cui ha preso forma e si è promulgata, per così dire questa scelta?

C’è una teoria molto attendibile secondo cui all’inizio di un’intera epoca storica, all’inizio di ogni nuovo regime, c’è un delitto fondatore. Secondo René Girard all’inizio della storia stessa della civiltà c’è il delitto fondatore dell’uccisione della vittima innocente, ossia c’è un sacrificio, grazie al quale viene ricomposta l’unità della società dilaniata dalle lotte primordiali.

Secondo Hobbes lo Stato stesso viene fondato dall’atto di violenza con cui il Leviatano assume il monopolio della forza ponendo fine alla lotta di tutti contro tutti e assicurando ai sudditi la vita in cambio della libertà.

Secondo Freud all’origine della società civile c’è il delitto fondatore dell’uccisione del padre.

Se poi si va a guardare la storia si trovano molti delitti fondatori. Cesare molte volte viene ucciso, il delitto Matteotti è il delitto fondatore del fascismo, l’assassinio di Kennedy apre la strada al disegno di dominio globale della destra americana che si prepara a sognare, per il Duemila, “il nuovo secolo americano”, l’uccisione di Moro è il delitto fondatore dell’Italia che si pente delle sue conquiste democratiche e popolari.

Ebbene il delitto fondatore dell’attuale regime del capitalismo globale fondato, come dice il papa, sul governo del denaro e un’economia che uccide, è la prima guerra del Golfo del 1991.

La guerra come delitto fondatore e il nuovo Modello di Difesa

È a partire da quella svolta che è stato costruito il nuovo ordine mondiale.

E noi possiamo ricordare come sono andate le cose a partire dal nostro osservatorio italiano Non è un punto di osservazione periferico, perché l’Italia era una componente essenziale del sistema atlantico e dell’Occidente, ma era anche il Paese più ingenuo e più loquace, sicché spifferava alla luce del sole quello che gli altri architettavano in segreto.

Questa è la ragione per cui posso raccontarvi come sono andate le cose, a partire da una data precisa. E questa data precisa è quella del 26 novembre 1991, quando il ministro della Difesa Rognoni viene alla Commissione Difesa della Camera e presenta il Nuovo Modello di Difesa.

Perché c’era bisogno di un nuovo Modello di Difesa? Perché la difesa com’era stata organizzata in funzione del nemico sovietico, che non c’era più, era ormai superata. Ci voleva un nuovo modello. Il modello di difesa che era scritto nella Costituzione era molto semplice e stava in poche righe: la guerra era ripudiata, la difesa della Patria, intesa come territorio e come popolo, era un sacro dovere dei cittadini. A questo fine era stabilito il servizio militare obbligatorio che dava luogo a un esercito di leva permanente, diviso nelle tre Forze Armate tradizionali. Le norme di principio sulla disciplina militare dell’ 11 luglio 1978, definivano poi i tre compiti delle Forze Armate. Il primo era la difesa dell’integrità del territorio, il secondo la difesa delle istituzioni democratiche e il terzo l’intervento di supporto nelle calamità naturali. Non c’erano altri compiti per le FF.AA. La difesa del territorio comportava soprattutto lo schieramento dell’esercito sulla soglia di Gorizia, da cui si supponeva venisse la minaccia dell’invasione sovietica, e la sicurezza globale stava nella partecipazione alla NATO, che prevedeva anche l’impiego dall’Italia delle armi nucleari.

Con la soppressione del muro di Berlino e la fine della guerra fredda tutto cambia: non c’è più bisogno della difesa sul confine orientale, la minaccia è finita e anche la deterrenza nucleare viene meno. Ci sarebbe la grande occasione per costruire un mondo nuovo, si parla di un dividendo della pace che sono tutti i soldi risparmiati dagli Stati per le armi, con cui si può provvedere allo sviluppo e al progresso di tutti i popoli del mondo; servono meno soldati e anche la durata della ferma di leva può diventare più breve.

Ma l’Occidente fa un’altra scelta; si riappropria della guerra e la esibisce a tutto il mondo nella spettacolare rappresentazione della prima guerra del Golfo del 1991, cambia la natura della NATO, individua il Sud e non più l’Est come nemico, cambia la visione strategica dell’alleanza e ne fa la guardia armata dell’ordine mondiale cercando di sostituirla all’ONU e anche di cambiare gli ideali della comunità internazionale che erano la sicurezza e la pace. Viene scelto un altro obiettivo: finita la guerra fredda, c’è un altro scopo adottato dalle società industrializzate, spiegherà il nuovo “modello” italiano, ed è quello di “mantenere e accrescere il loro progresso sociale e il benessere materiale perseguendo nuovi e più promettenti obiettivi economici, basati anche sulla certezza della disponibilità di materie prime”. Di conseguenza, si afferma, si aprirà sempre più la forbice tra Nord e Sud del mondo, anche perché il Sud sarà il teatro e l’oggetto della nuova concorrenza tra l’Occidente e i Paesi dell’Est. Alla contrapposizione Est-Ovest si sostituisce quella Nord-Sud.

Tutto questo precipita nel nuovo modello di difesa italiano, è scritto in un documento di duecentocinquanta pagine e il ministro Rognoni, papale papale, lo viene a raccontare alla Commissione Difesa della Camera, di cui allora facevo parte.

E’ un dramma, una rottura con tutto il passato. Cambia il concetto di difesa, il problema, dice il ministro, non è più “da chi difendersi” (cioè da un eventuale aggressore) ma “che cosa difendere e come”. E cambia il che cosa difendere: non più la Patria, cioè il popolo e il territorio, ma “gli interessi nazionali nell’accezione più vasta di tali termini” ovunque sia necessario; tra questi sono preminenti gli interessi economici e produttivi e quelli relativi alle materie prime, a cominciare dal petrolio. Il teatro operativo non è più ai confini, ma dovunque sono in gioco i cosiddetti “interessi esterni”, e in particolare nel Mediterraneo, in Africa (fino al Corno d’Africa) e in Medio Oriente (fino al Golfo Persico); la nuova contrapposizione è con l’Islam e il modello, anzi la chiave interpretativa emblematica del nuovo rapporto conflittuale tra Islam e Occidente, dice il Modello, è quella del conflitto tra Israele da un lato e mondo arabo e palestinesi dall’altro. Chi ha detto che non abbiamo dichiarato guerra all’Islam? Noi l’abbiamo dichiarata nel 1991. L’ho dichiarata anch’io, in quanto membro di quel Parlamento, anche se mi sono opposto.

I compiti della Difesa non sono più solo quei tre fissati nella legge di principio del 1978 ma si articolano in tre nuove funzioni strategiche, quella di “Presenza e Sorveglianza” che è “permanente e continuativa in tutta l’area di interesse strategico” e comprende la Presenza Avanzata che sostituisce la vecchia Difesa Avanzata della NATO, quella di “Difesa degli interessi esterni e contributo alla sicurezza internazionale”, che è ad “elevata probabilità di occorrenza” (e sono le missioni all’estero che richiedono l’allestimento di Forze di Reazione Rapida), e quella di “Difesa Strategica degli spazi nazionali”, che è quella tradizionale di difesa del territorio, considerata però ormai “a bassa probabilità di occorrenza”.

A seguito di tutto ciò lo strumento non potrà più essere l’esercito di leva, ci vuole un esercito professionale ben pagato. Non serviranno più i militari di leva; già succedeva che i generali non facessero salire gli arruolati come avieri sugli aeroplani, e i marinai sulle navi; ma d’ora in poi i militari di leva saranno impiegati solo come cuochi, camerieri, sentinelle, attendenti, uscieri e addetti ai servizi logistici, sicché ci saranno centomila giovani in esubero e ben presto la leva sarà abolita.

E’ un cambiamento totale. Non cambia solo la politica militare ma cambia la Costituzione, l’idea della politica, la ragion di Stato, le alleanze, i rapporti con l’ONU, viene istituzionalizzata la guerra e annunciato un periodo di conflitti ad alta probabilità di occorrenza che avranno l’Islam come nemico. Ci vorrebbe un dibattito in Parlamento, non si dovrebbe parlare d’altro. Però nessuno se ne accorge, il Modello di Difesa non giungerà mai in aula e non sarà mai discusso dal Parlamento; forse ci si accorse che quelle cose non si dovevano dire, che non erano politicamente corrette, i documenti e le risoluzioni strategiche dei Consigli Atlantici di Londra e di Roma, che avevano preceduto di poco il documento italiano, erano stati molto più cauti e reticenti, sicché finì che del Nuovo Modello di Difesa per vari anni si discusse solo nei circoli militari e in qualche convegno di studio; ma intanto lo si attuava, e tutto quello che è avvenuto in seguito, dalla guerra nei Balcani alle Torri Gemelle all’invasione dell’Iraq, alla Siria, fino alla terza guerra mondiale a pezzi che oggi, come dice il papa, è in corso, ne è stato la conseguenza e lo svolgimento.

Il perché della nuova Costituzione

E allora questa è la verità del referendum. La nuova Costituzione è la quadratura del cerchio. Gli istituti della democrazia non sono compatibili con la competizione globale, con la guerra permanente, chi vuole mantenerli è considerato un conservatore. Il mondo è il mercato; il mercato non sopporta altre leggi che quelle del mercato. Se qualcuno minaccia di fare di testa sua, i mercati si turbano. La politica non deve interferire sulla competizione e i conflitti di mercato. Se la gente muore di fame, e il mercato non la mantiene in vita, la politica non può intervenire, perché sono proibiti gli aiuti di Stato. Se lo Stato ci prova, o introduce leggi a difesa del lavoro o dell’ambiente, le imprese lo portano in tribunale e vincono la causa. Questo dicono i nuovi trattati del commercio globale. La guerra è lo strumento supremo per difendere il mercato e far vincere nel mercato.

Le Costituzioni non hanno più niente a che fare con una tale concezione della politica e della guerra. Perciò si cambiano. Ci vogliono poteri spicci e sbrigativi, tanto meglio se loquaci.

E allora questa è la ragione per cui la Costituzione si deve difendere. Non perché oggi sia operante, perché è stata già cambiata nel ‘91, e il mondo del costituzionalismo democratico è stato licenziato tra l’89 e il ’91 (si ricordi Cossiga, il picconatore venuto prima del rottamatore). Ma difenderla è l’unica speranza di tenere aperta l’alternativa, di non dare per compiuto e irreversibile il passaggio dalla libertà della democrazia costituzionale alla schiavitù del mercato globale, è la condizione necessaria perché non siano la Costituzione e il diritto che vengono messi in pari con la società selvaggia, ma sia la società selvaggia che con il NO sia dichiarata in difetto e attraverso la lotta sia rimessa in pari con la Costituzione, la giustizia e il diritto.

Riportiamo qui di seguito un commento a caldo

di Tati Sgarlata, portavoce del gruppo “Siracusa Resiliente”, sul dibattito costituzionale a Siracusa del 17 settembre 2016.

Ringrazio Salvo Adorno e Raniero La Valle per aver realizzato un dibattito ricco, forte, ma sempre rispettoso delle posizioni altrui.

Due visioni però diverse che hanno costretto i partecipanti a vedersi dentro per capire quale scelta fare e la scelta va molto al di là della riforma costituzionale, anche se ne rappresenta una tappa.

Di cosa ha bisogno questo mondo così preso tra crisi economica, ecologica, sociale e democratica? Si può sottovalutare il fatto che le democrazie occidentali hanno fallito dopo aver promesso partecipazione, lavoro, benessere, pace ed ora si risvegliano incapaci ed offrono riforme che accentrano mentre manca sempre più il lavoro, il benessere e la pace e dilaga la corruzione e la cura degli interessi personali a tutti i livelli?

È necessaria una riforma-rivoluzione radicale che modifichi l’assetto economico-finanziario e la subalternità della politica e quindi lavorare per rilanciare il patto costituzionale in Italia e per ritornare ad una Europa dei popoli e non delle banche?

Oppure accontentarsi di una contrattazione con il sistema che c’è cercando di trarre il meglio da questa situazione?

È meglio farci guidare dallo sguardo utopico e rilanciare trovando gli strumenti nuovi per avviare il processo, oppure bisogna essere realisti e muoversi in questo campo prudentemente ma cercando tutte le forme possibili di cambiamento?

Entrambe le scelte presuppongono consapevolezza e molto lavoro.

Ieri Raniero rappresentava il coraggio del rilancio utopico, Salvo la tesi opposta ma nostalgico nel non potere stare nel campo opposto.

Questo è il dramma della nostra generazione, scommetterci per il rilancio utopico o cambiare il possibile? Anche Renzi paradossalmente soffre di ciò quando si accorge che la Merkel va per la sua strada, ma Renzi deve capire che se vuole il cambiamento non deve andare a braccetto con il potere economico finanziario che sta distruggendo il mondo. Ma questo Renzi non lo può fare e non lo vuole fare.

Per tanti anni ho lavorato politicamente con l’ottica di Salvo anche se sempre con lo sguardo rivolto a Raniero, oggi scelgo Raniero perché penso che la deriva sia diventata oramai irreversibile e poi perché grazie al lavoro svolto da Siracusa Resiliente ho preso maggiore coscienza di come, anche la sinistra in cui ho militato, ha svenduto il potere politico al potere della finanza e del capitalismo.

Il ragionamento è unico: immigrati, ambiente, lavoro, dignità dell’essere umano, democrazia, società solidale.

È per questo che, al di là dei tecnicismi della riforma costituzionale che non mi convincono e che non risolvono il problema della semplificazione e della economicità ma solo quello della governabilità, ho deciso di votare NO per potere continuare il cammino della speranza in un mondo altro a partire da scelte di vita individuali e collettive che debbono però essere perseguite con decisione, impegno e coraggio, se no sarà solo un modo per mettersi a posto la coscienza e potere continuare a criticare chi cerca di cambiare il possibile con le regole che il gioco si è dato oggi.